La grande bellezza – Paolo Sorrentino

La grande bellezza"Secondo me oggi l’unica scena jazz interessante è quella etiope."
Se qualcuno pensa che un Oscar sia sufficiente a darmi la voglia di vedere un film si sbaglia, anzi.  Nemmeno ho perso tempo a leggere recensioni o pareri, anche perche’ il voltafaccia degli entusiasti quando si sono resi conto della distribuzione Medusa, ha dato la giusta misura dei reali parametri di valutazione artistica usati qua da noi.
In realta’ un articolo l’ho letto, quello scritto dal professor Antonio Saccoccio, stimato amico futurista e antiartista per eccellenza e la frase sopra mi fece dire "ok lo guardo". Si perche’ in fondo, il film e’ tutto qui, piegato nell’assurdita’ di un sistema che da tempo divora se stesso fagocitando non solo Roma ma il mondo intero. Non ci si confonda, Roma e’ un pretesto, un bellissimo pretesto di caput mundi ancora possibile.
Per la seconda volta Sorrentino cita Celine e si ripete l’idea di fuga, un disperato "koyaanisqatsi" nell’etimo, messaggio in bottiglia nemmeno sottotraccia, un contemplare le proprie vacuita’ con  rassegnazione non in  qualche triste parchetto di un pomeriggio autunnale come gli "amici miei" monicelliani ma sulle celebri terrazze romane, il che aggrava la sconfitta estendendola ad ogni strato sociale.
Si perche’ ci sta a dire che la grande bruttezza e’ dappertutto. il Brutto e’ nei sessantenni, orrendi e sconfitti in partenza, e’ nei quarantenni ancora piu’ orrendi perche’ potevano farcela e sono franati malamente, e’ nei ventenni che nemmeno capiscono di che si parla. Forse si salvano i bambini che ancora corrono nei giardini, non certo quelli col tablet in mano, gia’ vanto dei genitori.
Percio’ bellezza non e’ protagonista, bensi’  l’esatto contrario il che s’intuisce, e’ la stessa cosa, nel calco di una misera rappresentazione umana e italiana, spinta invero a tutto l’Occidente che ha perso il senso estetico ed etico del Bello soppiantando i bisogni dell’individuo a favore della massa.
I riferimenti a Fellini ci sono ma non bastano due chiapponi e tre suore e questa Roma forse qualcuno la confonde con la Roma di Flaiano. Si obiettera’ che stiamo parlando della stessa citta’ e invece no. La Roma di Fellini era felicemente caciarona e il suo sguardo divertito ne sublimava le tristezze il che non si puo’ certo dire della Roma di Flaiano, misera nell’ostentare una grandeur perduta e ridicolizzata dai protagonisti stessi che dovevano esaltarne le virtu’. La Roma di Sorrentino in fondo e’ la stessa dei gatti morti lanciati sui palcoscenici d’avanspettacolo ma se Fellini si divertiva tantissimo, Flaiano la compativa rifugiandosi magari in un teatro diverso ad ammirare Carmelo Bene. E’ tra i due estremi che spunta Moravia, non a caso citato da Gambardella e ago della bilancia tra un ieri e oggi, il giusto equilibrio tra lo sfascio e il fermento dal quale nascono le idee, grandezze definite dalle miserie viceversa. Di Fellini c’e’ la scoperta di una Roma nascosta che si rivela attraverso una porta aperta o un foro in un muro e che come arriva scompare con un soffio di vento o un raggio di sole e sempre Fellini torna nella risposta finale dove in fondo  tutto si riduce alla classica regressione archetipica junghiana o in termini cinematografici all’ "asa nisi masa" del regista romagnolo o piu’ nobilmente alla "Rosebud" di Welles.
Il testo talvolta vuole stupire a tutti i costi, ricerca l’aforisma dei 140 caratteri di Twitter, restando pero’ di massima ficcante e non solo di puro effetto
Tecnicamente non s’e’ mai visto in Italia niente del genere. Asse z come neppure Malick ha osato e accidenti Sorrentino quanto e’ bravo e se non ha superato il maestro Scorsese, al quale Jep peraltro in certi piani medi assomiglia tantissimo, di certo aggiunge una dimensione al miglior Oliver Stone quando dirigeva film e non scriveva proclami.
Bellissimo e stupefacente, la telecamera viaggia leggera, incorporea e percorre le vie di Roma come Sokurov viaggia nei corridoi dell’Hermitage, entrambi spiriti di una umanita’ perduta in costante bisogno di essere riscoperta e raccontata.
Servillo, Eh beh Servillo. Notevole. Da tanto non si vedeva una caratterizzazione cosi’ e certo non da qualche attore ancora in vita. Nel racconto della sua prima volta, scopro uno dei momenti piu’ emozionanti del cinema italiano.
Un difetto? Talvolta volta gli scappa la macchietta e invece del raffinato partenopeo, gli esce un Dudu’ il gaga’ dei tempi di Montesano. Peccato veniale.
Ecco, parlando di difetti, il troppo lungo momento conclusivo con la "santa" doveva essere evitato. E’ vero che fornisce il pretesto del finale ma non aggiunge nulla oltre a tempo che poteva essere meglio speso.
Concludendo. Il film e’ fonte d’infinite analisi, rimandi e citazioni e cio’ basta a definirne la forza e l’impatto. Bellissimo da vedere, colma un gap tecnico dell’Italia col resto del mondo civile che non si poteva piu’ giustificare. Furbo quanto basta per farsi amare dagli anglosassoni al di la’ di ogni oceano ma oltre ad avere una bella confezione ha anche un ottimo contenuto. Diciamolo, ci meritammo Sordi e siamo positivi, finalmente ci meritiamo questo Sorrentino.

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