La luna e i falo’ – Cesare Pavese (estratto)

Quella notte, prima di scendere a Oakland, andai a fumare una sigaretta sull’erba, lontano dalla strada dove passavano le macchine, sul ciglione vuoto.
Non c’era luna ma un mare di stelle, tante quante le voci dei rospi e dei grilli.
Quella notte, se anche Nora si fosse lasciata rovesciare sull’erba non mi sarebbe bastato.
I rospi non avrebbero smesso di urlare, né le automobili di buttarsi per la discesa accelerando, né l’America di finire con quella strada, con quelle città illuminate sotto la costa.
Capii nel buio, in quell’odore di giardino e di pini, che quelle stelle non erano le mie, che come Nora e gli avventori mi facevano paura.
Le uova al lardo, le buone paghe, le arance grosse come angurie, non erano niente, somigliavano a quei grilli e a quei rospi.
Valeva la pena esser venuto? Dove potevo ancora andare? Buttarmi dal molo?
Adesso sapevo perché ogni tanto sulle strade si trovava una ragazza strangolata in un’automobile, o dentro una stanza o in fondo a un vicolo.
Che anche loro, questa gente, avesse voglia di buttarsi sull’erba, di andare d’accordo coi rospi, di esser padrona di un pezzo di terra quant’è lunga una donna, e dormirci davvero, senza paura?

Eppure il paese era grande, ce n’era per tutti. C’erano donne, c’era terra, c’era denari.
Ma nessuno ne aveva abbastanza, nessuno per quanto ne avesse si fermava, e le campagne, anche le vigne, sembravano giardini pubblici, aiuole finte come quelle delle stazioni, oppure incolti, terre bruciate, montagne di ferraccio.
Non era un paese che uno potesse rassegnarsi, posare la testa e dire agli altri: “Per male che vada mi conoscete.
Per male che vada lasciatemi vivere”.
Era questo che faceva paura. Neanche tra loro non si conoscevano; traversando quelle montagne si capiva a ogni svolta che nessuno lí si era mai fermato, nessuno le aveva toccate con le mani.
Per questo un ubriaco lo caricavano di botte, lo mettevano dentro, lo lasciavano per morto.
E avevano non soltanto la sbornia ma anche la donna cattiva.
Veniva il giorno che uno per toccare qualcosa, per farsi conoscere, strozzava una donna, le sparava nel sonno, le rompeva la testa con una chiave inglese.
Nora mi chiamò dalla strada, per andare in città. Aveva una voce, in distanza, come quella dei grilli.
Mi scappò da ridere, all’idea se avesse saputo quel che pensavo. Ma queste cose non si dicono a nessuno, non serve.
Un bel mattino non mi avrebbe piú visto, ecco tutto. Ma dove andare?
Ero arrivato in capo al mondo, sull’ultima costa, e ne avevo abbastanza.
Allora cominciai a pensare che potevo ripassare le montagne.

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