Matrix Reloaded – Dialogo tra Neo e l’Architetto

ARCHITETTO: Salve, Neo.
NEO: Lei chi è?
ARCHITETTO: Io sono l’Architetto. Ho creato io Matrix. Ti stavo aspettando. Tu hai molte domande e, sebbene il tuo processo abbia alterato la tua coscienza, resti irreversibilmente umano. Ergo, alcune delle mie risposte potrai comprenderle, altre no. Concordemente, malgrado la tua prima domanda possa essere la più pertinente, potresti renderti conto, o non renderti conto, che essa è anche la più irrilevante.
NEO: Perché mi trovo qui?
ARCHITETTO: La tua vita è il prodotto di un residuo non compensato nel bilanciamento delle equazioni inerenti alla programmazione di Matrix. Tu sei il risultato finale di un’anomalia che, nonostante i miei sforzi, sono stato incapace di eliminare da quella che altrimenti è un’armonia di precisione matematica. Sebbene resti un problema costantemente arginato, essa non è imprevedibile, e pertanto non sfugge a quelle misure di controllo che hanno condotto te, inesorabilmente, qui.
NEO: Non ha risposto alla mia domanda.
ARCHITETTO: Giusto, è vero. Interessante. Sei stato più veloce degli altri.
NEO: Altri? Quanti altri? Quali altri? Voglio uscire!
ARCHITETTO: Matrix è più vecchia di quanto tu immagini. Io preferisco contare partendo dalla comparsa della prima anomalia fino al manifestarsi della successiva. Questa è la sesta versione.
NEO: Cinque prima di me? Mente. Sono palle. Ci sono due possibili spiegazioni: o nessuno me l’ha detto, o nessuno lo sa.
ARCHITETTO: Precisamente. Come ora stai senza dubbio intuendo, l’anomalia è sistemica, e crea pericolose fluttuazioni anche nelle più semplici equazioni.
NEO: Non puoi controllarmi! Non puoi fare niente! Io ti uccido! Io posso dire tutto quello che voglio! Bastardo! La scelta. Il problema è la scelta.

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Alva Noto & Ryuichi Sakamoto – Bologna 27-09-2012

Ryuichi SakamotoQuando hai dieci anni, tutto ti e’ dovuto e l’intera storia umana si schiaccia su una singola retta sulla quale giace la propria autocoscienza incapace di percepire la profondita’ del tempo.
Per questa ragione nel 1978 l’esordio di Sakamoto con gli "Yellow Magic Orchestra" mi parve normale, atto persino scontato e ricordo come non riuscissi a comprendere tutto il clamore attorno.
In fondo nella loro musica c’era il mio mondo, i suoni degli amati videogiochi, l’elettronica che oramai imperversava ovunque, l’oriente dei robottoni anime invasori dell’etere.
L’impatto prima culturale poi musicale fu epocale ma serviranno anni ed esperienza per comprenderlo sino in fondo. La YMO seppe creare sonorita’ multidimensionali, spostamenti temporali e spaziali come bisettrici di un quadrilatero nel quale l’oriente si fonde con l’occidente e la tradizione del passato si sposa con le onde sintetiche del futuro. Dal canto suo Carsten Nicolai alias Alva Noto, e’ oggi uno dei capisaldi indiscussi dell’IDM, ambient Alva Notoche vede nell’uso del glitch il grimaldello per spalancare le porte a nuovi suoni. Il glitch appunto e’ cio’ che meglio definisce Alva Noto, un colpo di rumore bianco che attraversa lo spettro armonico e come un lampo nel buio, illumina attorno a se’ nuove terre mostrando la strada su nuovi confini, mezzo senza messaggio come teorizzato da McLuhan, complesso d’informazione da scomporre e decodificare attraverso il prisma melodico di Sakamoto. Ecco quindi il legame dei due musicisti.
Nella direzione di una ideale freccia del tempo, Sakamoto al piano e opposto alla sua sinistra Nicolai alla consolle con in mezzo a unire il suono, la sua rappresentazione, pentagramma per transumani, quanto di piu’ vicino si possa approssimare al "sound object" teorizzato da  Schaeffer fino all’accezione estesa da Chion.
Geometrie a bassa risoluzione che attraverso l’aliasing generano stupefacenti suggestioni sposate all’atonalita’ di alcuni passaggi di Sakamoto e si fondono col noise di Alva Noto, nero e bianco i colori antitetici dei due, dal passato al futuro, progressione che non distrugge ma edifica, strumenti di ieri verso strumenti di oggi e domani eppure il salto lo compie Sakamoto col suo pizzicare le corde del piano, suono veicolato dalle frequenze sintetiche e compatte che sostengono l’armonia nella contrapposizione negropontiana tra atomo ed elettrone come estremi che convivono senza confondersi.
Alva Noto & Ryuichi SakamotoChe il ruolo di Alva Noto nelle sue collaborazioni sia inscrivibile alla struttura di sfondo, piattaforma di sviluppo e grammatica di base, lo si e’ ancor meglio ascoltato con Blixa Bargeld, posizione complementare e mai succube che moltiplica esponenzialmente il lavoro di entrambi i musicisti. Sakamoto ha l’aspetto totemico della leggenda, altrettanto iconografico Nicolai, emblema vivente del rigore teutonico, degno erede dell’espressionismo kraftwerkiano seppur piu’ classico nella forma. 
Entrambi incarnano le loro leggende, concezione dell’arte espressa nella continua innovazione che non rinnega le proprie origini ma anzi ne esalta le virtu’. Rappresentazione perfetta, celebrale eppure emozionante nel proseguo interiore delle commistioni esercitate sul palcoscenico, assolutamente da ripercorrere col ricordo e l’ascolto della gia’ cospicua produzione musicale che il duo ha prodotto sino ad oggi.
Ho visto il passato ed ha un futuro bellissimo.

Alva Noto & Ryuichi Sakamoto – YouTube Playlist

Alva Noto web site
Ryuichi Sakamoto web site
Robot Festival

Nascita di un guru – Takeshi Kitano

Nascita di un guruDa anni ormai Kitano e’ assurto al ruolo di maschera tradizionale giapponese anzi a maschera internazionale essendo riuscito a travalicare i confini della propria nazione grazie al suo eclettismo e la dote non comune di sapersi destreggiare con fortune alterne in innumerevoli campi dello showbiz e dell’arte.
Maschera di un personaggio iconico ma anche maschera involontaria che il destino gli ha stampato sul volto dopo un grave incidente motociclistico ed egli, da uomo di spettacolo qual’e’, ha saputo tramutare un handicap in tratto distintivo caratterizzando di fatto i suoi ruoli sulla nuova sembianza.
Cinema a parte, "Nascita di un guru" e’ un libro del 1990, periodo di forte fermento creativo per Kitano, momento nel quale a leggere la sua biografia, si stava muovendo in innumerevoli direzioni quasi a cercare la piu’ consona e favorevole.
Anche il protagonista e’ alla ricerca di qualcosa, Kazuo questo e’ il suo nome, perde nello stesso periodo lavoro e fidanzata e un po’ per reazione, un po’ casualmente, certo con incoscienza, si getta  tra le braccia di una setta religiosa palesemente falsa, persino patetica nel tentativo di convincere il prossimo dei poteri miracolosi del loro guru, eppure per il ragazzo sara’ un’importante occasione per riprendere in mano le redini della propria vita.
Per quanto ho letto sino ad oggi, Kitano non e’ un gran scrittore e anche questo libro conferma purtroppo l’impressione. Soggetto mal definito con personaggi bidimensionali e poco credibili, figurine a quattro colori ritagliate con approssimazione su sfondo fin troppo facile da immaginare.
Malgrado questo pero’ Kitano si salva e ci riesce ancora una volta con la grande anima che gli appartiene, con la poesia che riversa in tutto cio’ che fa e denominatore comune di ogni espressione artistica nella quale si cimenti.
In mezzo ad un testo essenzialmente piatto, emergono suggestioni altissime come quadri da sogno e fosse solo per quelle poche frasi, che il libro assume senso e da’ voglia di concludere la lettura perche’ per il resto, non vale granche’.
Se si considera Kitano e’ una specie di amico fraterno allora e’ lettura da farsi, altrimenti c’e’ di meglio.

Outrage – Takeshi Kitano

OutrageKitano con "Outrage" torna a fare film sulla yakuza. Sorprendente? Moltissimo conoscendo il regista, i suoi trascorsi, le sue parole, le sue promesse e il personaggio nel complesso. Dopo "Brothers" giuro’ e spergiuro’ che mai piu’ avrebbe fatto film sulla yakuza, scelta coraggiosa ma obbligata per un estroso come Kitano che difficilmente si puo’ rinchiudere in una gabbia per quanto dalle sbarre dorate. Scelta d’orgoglio quindi, come fosse troppo facile il successo restando nel cliché ma qualcosa e’ andato storto e parer mio, l’errore del regista e’ stata di aver sopravvalutato il suo pubblico ritenendo forse che la sua arte potesse essere sufficiente a garantire il giusto successo. 
Lunghi anni sbagliando un film dietro l’altro, incapace di comprendere cosa non stesse funzionando, ripiegando su pittura e scrittura, ironizzando amaramente con "Glory to the filmmaker!" e "Takeshis’", gettando la spugna con "Achille e la tartaruga" e infine la resa con "Outrage".
Non e’ questione di bello o brutto ma la pellicola e’ l’inizio di un nuovo capitolo e a occhio, un boccone amaro per Kitano. Storia di yakuza, violenza e denaro, guerra senza quartiere per conquistare territori e nuovi mercati del crimine. Tutto qui e intendo dire che non offre chissa’ quali emozioni ed innovazioni.
Lui resta una maschera sublime, sempre piu’ stilizzata e riconoscibile, consapevole oramai e non piu’ rassegnata ed e’ difficile leggervi altri sentimenti. E’ una regola per l’attore firmarsi Beat, alter ego dei bei tempi andati, lasciando Kitano come regista ma la dicotomia questa volta ha il sapore di divorzio, di separazione.
Se piace il genere, piacera’ anche questo ma non brilla di originalita’ e gia’ nel suo DNA con l’intenzione dichiarata di puro entertainment, pare che Beat Takeshi abbia voluto dare al suo pubblico cio’ che voleva, niente di piu’, niente di meno, dichiarata resa verso coloro che, incapace di comprenderlo, s’ostinavano nel domandare una visione univoca di cinema per lui superata ma per lo spettatore no.

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Achille e la tartaruga – Takeshi Kitano

Achille e la tartarugaUn racconto, una parabola, magari un favola dal sapore burtoniano condita con la dolce salsa di Kikujiro e la sprezzante ironia del nostro giunto ormai alla fine di un ciclo. Nascere per e con l’arte, questo e’ il destino del protagonista e malgrado le avversita’ della vita, il bisogno di un riconoscimento, anche tangibile perche’ no, prendera’ il sopravvento sul senso comune del vivere e del creare.
Prima della resa con "Outrage", Kitano si e’ giocato un’ultima carta con "Achille e la tartaruga", forse il film piu’ autobiografico della sua carriera, ancor piu’ di "Takeshis’ " col quale scherzo’ amaramente laddove il riso fu un pretesto per nascondere rabbia e incredulita’.
Si sa quanto egli sia legato alla pittura, passione antica tornata in auge nel periodo di degenza dopo il terribile incidente che lo vide protagonista. Sappiamo che nel periodo successivo all’uscita del film, la sua mostra personale ha girato il mondo e diciamocelo, senza il nome Kitano difficilmente troveremo questa roba oltre il cortile di qualche istituto scolastico.
Non che sia un caso isolato anzi e’ noto quale inganno sia il mercato dell’arte ma credo anche che un uomo intimamente artista quale egli e’, si senta frustrato e non poco innanzi gli scarsi risultati gonfiati artificialmente dal suo nome e poco altro.
Come a Machisu il protagonista, c’e’ un fuoco in lui alimentato dalla passione ma non dal talento, almeno un talento riconosciuto in quanto tale, una maledizione tremenda per chi sente il bisogno di esprimersi, dolore persino troppo grande sentendosi falliti in ben due discipline, cinema e pittura, come stava accadendo a Kitano a quel tempo. I riferimenti ci sono tutti, persino l’incidente che non conta, non ferma, non blocca il bisogno di essere all’interno di un’arte dirompente e coinvolgente.
In realta’ Kitano e’ un artista vero, uno dei grandi dal talento incontenibile ma troppi anni d’insuccesso minerebbero la fiducia a chiunque anche a chi, come Kitano, non dovrebbe avere questi problemi.
Cosi’ si spiega la pellicola e in fondo dieci anni di vita a tutto tondo del Maestro, le sue scelte e il percorso intrapreso, opera in fondo estrema come estrema diviene la follia del protagonista.
Non credo neppure sia sottotraccia un discorso generale sull’arte, inutile come sempre quando si cerca di definirla, eppure il gap tra operatori del settore e uomo della strada non solo s’allontana ma s’inasprisce.
In mezzo resta chi fa arte e ci crede, la sente come esigenza fisica, un bisogno tangibile di dare, irrefrenabile nell’esprimersi, spesso incompresa da chi sta vicino, sbeffeggiata da chi al di fuori non sa capire.
Eppure c’e’ da mettere in conto che c’e’ sempre una realta’ con la quale confrontarsi e lo scontro tra ingegno e giorno avviene dove troppo spesso i sogni s’infrangono.
Kitano ha raggiunto la sua tartaruga quindi? Purtroppo per lui, si.

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Catalogo mostra Kitano alla Fondazione Cartier

Cavie – Chuck Palahniuk (estratto, racconto completo)

Budella
Un racconto di San Vuotabudella

Inspirate.
Inalate il più possibile.
Questo racconto dovrebbe durare più o meno il tempo che riuscite a trattenere il respiro, più un altro po’.
Per cui ascoltate più in fretta che potete.
C’era un mio amico che quando aveva più o meno tredici anni aveva sentito parlare del "pegging". Vuol dire quando ci si fa scopare in culo con un dildo. Pare che stimolarsi a dovere la ghiandola prostatica ti faccia avere degli orgasmi col botto. E senza mani, per di più. Alla sua età, questo mio amico è come dire, un po’ un maniaco sessuale ed è sempre in cerca di modi nuovi per arraparsi. Ragion per cui esce a comprarsi una carota e della vaselina. Per condurre, ecco, una piccola ricerca privata sulla faccenda. Poi però si immagina al supermercato, la carota e la vaselina che scorrono sul nastro trasportatore in direzione della cassiera. E la gente in coda che osserva. E capisce che gran seratona si è organizzato.
Ragion per cui questo mio amico compra latte, uova, zucchero e una carota: gli ingredienti per una bella torta di carote, insomma. Più la vaselina.
Come se si dovesse infilare su per il culo una torta di carote.
A casa smussa accuratamente un’estremità della carota, poi la unge e ci poggia sopra il culo. E non succede nulla. Orgasmo: zero. Niente di niente. Tranne che fa male. E a quel punto la madre lo chiama perché è pronta la cena. Vieni giù, dice, immediatamente. Allora lui estrae la carota e la avvolge in un mucchio di indumenti da lavare che poi ficca sotto il letto.
Dopo cena va a cercare la carota e non la trova più. Durante la cena sua madre ha raccolto tutti i vestiti sporchi e ha fatto il bucato. Non esiste al mondo che non abbia trovato la carota, ancora unta di vaselina e puzzolente, arrotondata ben bene con un pelapatate appositamente sottratto in cucina.
Questo mio amico per mesi e mesi teme il peggio, terrorizzato che i genitori si decidano a parlargli. Ma non succede mai. Ancora adesso, in età adulta, a ogni cenone natalizio, a ogni festa di compleanno, l’invisibile carotone aleggia su di loro. A ogni caccia al coniglio pasquale con i suoi figli, i nipoti dei suoi genitori, la carota fantasma è sempre lì, sospesa sulle loro teste.
Come qualcosa di troppo orribile per essere anche solo nominato.

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La Gloria – Giuseppe Berto

La GloriaE’ fin troppo facile vedere in Giuda Iscariota il peggior traditore dell’umana storia ma gia’ da ragazzo pensavo a lui come il piu’ santo tra i santi, un martire condannato all’eterna infamia con la sola colpa di essere stato scelto in funzione di un tradimento da compiersi affinche’ la Gloria di Dio potesse realizzarsi.
Idea non banale la mia se la trovai qualche anno piu’ tardi confermata da "Jesus Christ Superstar" e poco piu’ in la’, Giuseppe Berto espande l’idea costruendoci sopra un magnifico romanzo anzi ancor meglio, qualcosa che si pone tra il diario, la narrazione e il Vangelo apocrifo.
Tra i tanti meriti di Berto, sicuramente s’annovera la camaleontica capacita’ di adattare lo stile di scrittura alla circostanza e non c’e’ da sorprendersi con l’inizio del libro alla pari di una Sacra Scrittura, antefatto che precede il racconto di un Giuda narrante da una realta’ temporale successiva agli eventi, coscienza ormai slegata da vincoli terreni che tutto conosce dalla storia e degli uomini.
Durante la narrazione si susseguono ricordi e considerazioni intervallando il ricordo con analisi a posteriori dei fatti accaduti, difesa ad oltranza per aver troppo amato Gesu’ e il suo popolo.
Si perche’ la prospettiva e’ religiosa ma nondimeno politica, contestuale all’epoca, laddove il Salvatore tra dubbi e incertezze, portava con se’ il carisma necessario per liberare Israele dal predominio romano, Egli vessillo di liberta’ per qualcuno poco interessato all’anima e molto di piu’ alla vita terrena.
La narrazione e’ atipica e stuzzicante nel descrivere un Gesu’ che sbaglia, che s’arrabbia, che ha le sue giornate storte e le cui parabole non sempre sono comprensibili e sensate alle orecchie di chi ascolta. Gli apostoli non sono uomini soggiogati dalla Fede ma affascinati dall’Uomo, dal suo ascendente, dalla speranza che Egli sia chi dice di essere, in mezzo ad una moltitudine di altri presunti "redentori".
Giuda non crede ma spera, vuole che quel Gesu’ salvi il suo popolo, sia luce della sua vita.
Il suo dubbio non e’ blasfemo anzi amplifica la portata del racconto, aggiunge una dimensione alla monolitica visione giunta fino a noi e nell’umanita’ della carne e dei sentimenti troviamo ancora piu’ forte il sacrificio del figlio di Dio.
Berto non stravolge i Vangeli e come potrebbe del resto, con quale diritto poi ma s’insinua al loro interno, impegnandosi da dietro le quinte piuttosto che sbilanciarsi verso una nuova interpretazione, fornendo tramite Giuda una prospettiva che illumina la scena diversamente senza stravolgerla.
Probabilmente il gia’ citato "Jesus Christ Superstar" porta la difesa di Giuda sino in fondo ma il musical e’ certo piu’ facile da gestire, piu’ immediato e si sa, la battuta fulminante sovrasta la lunga analisi se viene ben giocata.
Bella operazione, come detto forse non originale ma efficace, ben realizzata, un modo per parlare parlare di Dio con nuove idee senza essere banalmente e stupidamente blasfemi.

Una sconfinata giovinezza – Pupi Avati

Una sconfinata giovinezzaSto finendo gli aggettivi per descrivere la dolce forza dei film di Avati ma non la sorpresa e la meraviglia nel guardarli. Non sprechero’ iperboli per insinuarmi nelle deliziose pieghe del suo cinema perche’ del resto se un’immagine vale mille parole, un suo film vale intere biblioteche e di certo e’ sarebbe bene ripensare il nostro cinema magari ricominciando da lui.
Avati diverte con "Gli amici del Bar Margherita" sino alle lacrime e a distanza di pochi mesi quelle lacrime scorrono copiose per un film straziante e dolcissimo come una "Una sconfinata giovinezza".
Il tema e’ serio, doloroso, terribile quando si parla di Alzheimer, malattia spaventosa perche’ strappa pensieri e ricordi poco a poco, trasforma il carattere, precipita il malato nell’oblio di una non-esistenza lasciando a chi si ama un guscio vuoto irriconoscibile e per questo piu’ tragico della morte nel quotidiano confronto con cio’ che si era, con quanto si e’ diventati.
Avati pero’ non erge la malattia a protagonista lasciando come sempre i sentimenti al centro della scena, senza proclami, nell’accettazione di una lotta senza vincitori, nel coraggio di mettersi in gioco sapendo di perdere.
Non sono un fan di Bentivoglio ma lo rispetto e certo qui e’ intoccabile, solo a tratti appena sopra le righe.
Al contrario mi piace poco o niente Francesca Neri ma devo togliermi il cappello innanzi una prestazione maiuscola constatando ancora una volta che Avati sa fare miracoli coi suoi attori. Cavina in un ruolo troppo piccolo ma certo sempre presente, ricordando Lino Capolicchio che mi ha fatto una gran impressione nel rivederlo ormai nel pieno dei suoi anni ma sempre all’altezza della sua storia professionale.
Il film fu escluso dal Festival di Venezia e ricordo che Avati se la prese ma quale miglior complimento per un Maestro come lui, l’essere escluso da un festival che anche di recente ha saputo presentare buffoni e buffonate nel costante impegno a mostrare al mondo il peggio, del peggio, del peggio che il cinema italiano possa esibire.
Opera dura quanto meravigliosa che solo Avati poteva addolcire senza retorica e con tanta passione.

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Il nascondiglio – Pupi Avati

Il nascondiglioContinua la missione impossibile di Pupi Avati del rendere protagonisti e grandi attori i piu’ insospettabili ed incapaci. Questa volta tocca a Laura Morante, attrice con un solo pregio, anzi due e lascio immaginare quali, perche’ per il resto la signora con la gamma espressiva che spazia dal drammatico al tremendo, faticherebbe anche a vendere gelati bigusto, impresa che almeno ad Accorsi una volta nella vita e’ riuscita.
Avati statunitense e non e’ la prima volta, come non sorprende trovarlo perfettamente a proprio agio perche’ da grande regista quale e’, sa uscire dai suoi cliché e reinventarsi con gli ingredienti a disposizione e che il piatto sia ricco o meno, Avati sa esprimersi sempre alla grande.
Dopo l’antefatto di qualche decennio prima, una notte di gelido inverno nel quale avvengono efferati delitti, la protagonista Morante esce dalla casa di cura nella quale era ricoverata – sentiva le voci – e decide di aprire un ristorante ma le voci, seppur diverse, non cessano e non cessano i misteri che in molti non vogliono svelare.
Si e’ detto molto sul ritorno di Avati al genere thriller/horror e del resto non e’ possibile dimenticare due pellicole come "La casa dalle finestre che ridono" e "Zeder", punte massime del suo repertorio.
Il tema della casa ha rimandi potenti nel passato cinematografico laddove gli americani ce l’hanno cucinata in tutte le salse e noi in Italia abbiamo saputo fare grandi cose con Avati appunto e non ultimo Argento.
Probabilmente il richiamo nato dell’associare "casa", "USA" e "horror" deve essere stato per Avati irresistibile, forse inevitabile, arcano e incantatore.
Nel complesso la pellicola e’ buona, girata benissimo e con sapienza. C’e’ una delicatezza inusuale per questi soggetti, la grazia di un tempo di terrorizzare con un sospiro lasciando gli sbudellamenti ai nuovi barbari. I difetti piu’ evidenti stanno nella scelta della Morante che nemmeno Avati ha saputo rendere decente, persino insopportabile quando starnazza a bassa voce ed incapace di dare un’espressione e quel visino buono a tutto fuorche’ recitare.
Anche lo script ha i suoi buchi e zoppica in piu’ punti, soprattutto nella caratterizzazione dei comprimari che restano appesi a mezze situazioni non troppo definite.
Ad ogni modo Avati e’ un maestro ed e’ una buona occasione per rivederlo in azione su un genere dimenticato per troppo tempo e magari approfittarne per fare confronti recuperandolo nel suo nobile passato.

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Giochi nell’acqua – Peter Greenaway

Giochi nell'acquaTre donne, tre generazioni, mariti non alla loro altezza e la campagna inglese in autunno. Solo qualche omicidio puo’ portare una ventata di aria fresca nel suggestivo per quanto immobile panorama.
In realta’ la fauna umana fornisce abbastanza stimoli da tenere occupato un antropologo per qualche decennio tra ragazzini fissati coi numeri, come se il regista non lo fosse col suo conteggio da 1 a 100 che attraversa tutto il film, medici legali satiri, bambine che saltano la corda contando le stelle e una serie di macchiette molto felliniane totalmente immerse nel microcosmo nel quale vivono.
Eccoci quindi con un Greenaway al suo massimo, prima che la computer-grafica gli assorbisse l’anima, prima che confondesse stile con stilema, con Nyman al suo fianco, Balanescu al violino e tutta la natura morta dentro, col potere di uscire dalle tele e farsi celluloide.
Certo che anche in questo periodo non scherzava in quanto a luci, forme, simboli e immagini, riempiendo materialmente ogni singolo fotogramma con infiniti rimandi, citazioni, giochi gettati come un guanto allo spettatore che ad un certo punto puo’ soltanto accettare la sfida cercando al meglio di star dietro al passo veloce del regista.
Talvolta fa arrabbiare e’ vero, acrobata sospeso tra il surreale e il grottesco, non sempre resta sotto la soglia minima della boria ma e’ da prendere cosi’, nel carico degli eccessi e della fantasia, pittore piu’ che regista di grandi, immense tele colme di un cosmo a stento compresso nel poco spazio a sua disposizione.
Ad aiutarlo i protagonisti, inglesi come la storia, inglesi come il soggetto, inglesi come le nebbie e la terra umida, indifferenti a quanto accade, persino a loro stessi ed e’ un lato del popolo anglosassone che dai tempi di "Fumo di Londra" non cessa di sorprendere ed affascinare.
Possiamo chiuderla qui, del resto Greenaway e’ da vedere e parlarne seve a poco, se poi e’ ancora divertente, il consiglio vale doppio.

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