Sono apparso alla Madonna – Carmelo Bene (estratto)

Nel Teatro Laboratorio spiravano soffi e ventate che fatalmente molto s’imparentavano a quelli del Borgo Santo Spirito. Dopo un’attesa che a volte durava anche tre ore il pubblico era costretto a passare al “trucco”, nell’androne adiacente dove io e il signor Nistri, che vestiva sempre un ineccepibile tight e ghette alle scarpe (tutto materiale che reperiva a Porta Portese), conservando una dignità eroica, sfregiavamo ad libitum il viso agli “abbonati” che, uscendo all’intervallo, si buscavano prima enormi catinellate d’acqua condominiali sul loro snobismo voyeurismo d’accattò (sospesi tra un “mortacci vostri” e “… però carino, stravagante, questo posto…!”) e poi andavano al bar attiguo e si vedevano allo specchio pittati da strapazzo, sicché non potevano criticar nulla o trinciare il repertorio dei loro valori, perché derisi comunque da quel trucco che li cancellava.
Li si truccava solo per questo: perché non fosse possibile seriosità di giudizio alcuno. Si tagliava in loro i fili dell’eventuale pettegolezzo. Erano già, quelle, sane iniezioni di pessimismo che scoppiavano in risa allo specchio.
Era allora con me certo Alberto Greco, gran pittore argentino che predicando l’“Arte-Vivo” sottoponeva le sue migliori tempere al bel-casuale-oltraggio dei copertoni zigrinati che solcano l’asfalto.
Assuefatto pericolosamente a non bere, mi capitò in scena briaco – giusto la sera del debutto del Cristo ’63 nel ruolo dell’apostolo Giovanni, in un teatrino stipato all’inverosimile di centoventi cristiani, pigiati, stropicciati in una clamorosa promiscuità.
Forse spinto – che so io… in quel caso povero Cristo – dall’urgenza di travasare il “colmo”, caro il mio Alberto si concesse d’irrorare a scrosci d’urina le sagome a bella vista in prima fila dell’ambasciatore argentino, della sua signora non casualmente disgraziata al fianco, e dello a seguito addetto culturale.
Così cangiato in quell’altro Giovanni (Battista), trasse nuovi diffamanti spunti dalle torte di scena dell’“Ultima Cena”, allestita in quel caso con un che di esagerato lusso per un’occasione certo più “santa”.
Esaurita la pioggia dorata, il briaco rovesciò in creativo slancio a ripetizione manciate di panna, grumi di liquorosa pasta sopra i tre compatrioti inchiodati al loro seggio in una stuporosa, incredula, dignitosa fissità, ben torniti dalla vischiosa melma e impasto che si addensavano a mo’ di mastice su quel vilipeso onore.
Ormai tradotto quel degenere alla sua abitudine di pittore-imbianchino, meglio dispose la mano in cazzuola a spalmare, rifinire le superfici umane “tutto per bene” (vestiti, chiome, visoni ecc.). E dalla panna al resto: “Spagheti, passame!”
Complici di scena, gli altri guitti tratti a quell’orgia schizoide di materia in libera pulsione porgevano eccitati in quell’ormai demenza collettiva grumi ripugnanti di bigoli filamentosi che il pazzo spalmava sulle nuche arrese che presero a colare ragù misto a terrore. L’ambasciatore specialmente sembrava la Statua del Commendatore, impietrato a quel torrentizio flusso.
Fu una serata davvero indimenticabile. Leggi il resto dell’articolo