Le opere e i giorni di Ennio Flaiano: Ritratto d’autore – Franco Celenza

Le opere e i giorni di Ennio FlaianoQuanto ha scritto e prodotto Ennio Flaiano e quanto poco conosciamo di lui.
Sue tante sceneggiature che hanno reso grande il cinema italiano, eppure ricordiamo i registi, come se egli non avesse contribuito a creare quelle scene che loro hanno ripreso, ricordiamo gli attori, come se non fossero sue le celebri frasi recitate. 
Si sa, questo e’ il destino di chi lavora dietro le quinte ma in certi casi serve ricordare e scoprire quando e’ il caso, l’eccellenza a monte del successo.
E’ vero, Flaiano e’ un personaggio singolare nel mondo della letteratura perche’ malgrado l’enorme quantita’ di testi, in fondo ha scritto un solo romanzo, disseminando il suo pensiero in infiniti articoli ed elzeviri, la sua produzione per il teatro e’ stata copiosa ma da molti ritenuta difficile da portare sul palcoscenico, dimensionandosi perfettamente su carta. Poi il cinema, cosi’ complicato da tradurre in parole se isolate dal contesto e senza altro supporto.
Eloquio crudelmente efficace, pensiero affilato come un rasoio funzionale all’aforisma, alla frase ad effetto e non a caso Flaiano e’ citato e ricitato, spesso senza alcun riconoscimento, come si fa con illustri predecessori della caratura di Wilde e Shaw, anch’essi in fondo troppo citati e poco conosciuti.
Nel ripercorrere l’opera di Flaiano, e’ facile toccare con mano il disagio di un uomo la cui arguzia pare l’unica arma di difesa laddove ad un certo punto, il cinismo ed il dolore presero il sopravvento.
Il destino di una figlia malata che segnera’ per sempre la sua vita, dolore testimoniato della straziante "La spirale tentatively", fara’ dello scrittore un osservatore talmente caustico e preciso da apparire al giorno d’oggi, come narratore illuminato e privilegiato di cio’ che noi tutti, l’Italia ma in fondo l’intero Occidente sarebbe diventato.
Approcciare oggi Flaiano e’ in fondo un’operazione di lettura e rilettura della societa’ odierna e ritrovarsi a decifrare i simboli sin da allora visibili, e’ in qualche modo svelare noi stessi attraverso le parole di chi ha saputo vedere e capire con decenni di anticipo.
Flaiano aiuta quindi a ritrovare un passato non troppo epico e a riconoscersi in un presente tragico, consolandosi in fondo che la pendenza del precipizio e’ meno angolata di quanto si pensi.
Libro singolare, non si sa bene se biografia, raccolta di scritti o analisi critica, in fondo perche’ e’ tutto quanto assieme e ben si presta ad approcciare l’autore con qualunque grado di conoscenza, grazie ad alcuni testi difficili da trovare e un indice delle opere che e’ bene avere sottomano.
Passepartout d’obbligo per comprendere uno dei piu’ importanti scrittori italiani di sempre.

Iron Sky – Timo Vuorensola

Iron SkyQuando anni fa comparve il primo teaser su YouTube ne rimasi entusiasta e nel contempo rassegnato a non vedere mai realizzata un’idea cosi’ brillante per quanto non nuova.
Perche’ tanta rassegnazione si dira’, ebbene non era peregrino ritenere che solo Hollywood potesse sostenere una produzione di questo tipo e figuriamoci se poteva passare da quelle parti l’idea che esista un IV Reich pronto a dare filo da torcere all’intero pianeta.
Di questo si tratta, ovvero l’ipotesi che i nazisti siano riusciti nel 1945 a fuggire dalla Terra e nascondersi sul lato oscuro della Luna.
Un nuovo allunaggio, formalmente per promuovere la rielezione della Presidentessa degli Stati Uniti ma in realta’ per trovare giacimenti del prezioso Elio 3, svelera’ la presenza nazista e inneschera’ il nuovo conflitto mondiale sino alla formidabile battaglia spaziale conclusiva.
Ebbene alla fine il film e’ stato realizzato smentendo il mio pessimismo ma si converra’ che stiamo parlando di un miracolo produttivo che ha visto coinvolte ben tre nazioni, Finlandia, Germania, Australia, una inifinita’ di piccoli finanziatori, finanche le minuscole donazioni dei frequentatori del web che hanno creduto nel progetto.
Non c’e’ ombra degli States che del resto dalla pellicola vengono massacrati a colpi d’umorismo e nel saperli fuori dal progetto, scopro almeno qui di aver visto giusto.
Il film merita per tante ragioni. In primo luogo per l’impegno di realizzare qualcosa al di fuori dei canali consueti, dimostrando che i soldi possono essere un problema secondario, volere e’ potere insomma.
Tecnicamente ineccepibile, soggetto ben giocato e interpretato da professionisti che reggono ruolo e storia.
Poi diverte e gli effetti speciali niente affatto male, danno un nuovo spessore alla speranza di vedere qualita’ oltre i soliti studios. Devo aggiungere che e’ da Star Wars, citatissimo peraltro, che non si assisteva ad un assalto spaziale cosi imponente ad una base nemica.
Eppure se l’umorismo sottende il progetto e’ in realta’ cio’ che non mi convince del tutto o meglio e’ un’interpretazione che funziona ma avrei preferito uno sviluppo drammatico e terribile da fine del mondo.
Sara’ che m’incanto con le ucronie di Mario Farneti – la saga di "Occidente" si che meriterebbe un ciclo cinematografico – ma avrei voluto diversamente.
Poi capisco che il soggetto sia troppo delicato e nel "libero" Occidente a senso unico, non si puo’ concedere la suggestione di voler esaltare un’idea differente dall’ufficiale, per cosi’ dire, nemmeno come fiction.
Inoltre un film drammatico con un’invasione nazista ed un conflitto su scala mondiale, avrebbe richiesto sforzi produttivi quindi economici, impensabili e irraggiungibili per un film realizzato con mezzi di fortuna come "Iron Sky".
L’ultima speranza di serieta’  viene dal Nord e anche col cinema, abbiamo oggi una riprova.
Un po’ di rimpianto quindi ma missione compiuta.
Dimenticavo, strepitosa soundtrack dei Laibach, uno dei pochi gruppi al mondo con la potenza e la capacita’ d’interpretare un film come questo.

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L’ultimo dei templari – Dominic Sena

L'ultimo dei templariConto i pochi film girati sui crociati, sui templari, sul nostro medioevo in genere e mi stupisco del loro numero esiguo anche se in fondo non dovrei.
Voglio dire, ogni nazione ha saputo fare della propria storia e delle proprie leggende, un vanto e occasione di business perche’ no, soffiando sul fuoco dell’avventura anche a scapito di verita’ storiche molto diverse.
Figuriamoci che persino una nazione giovane come quella statunitense fa film sui propri presidenti per arrivare a scoprire che sappiamo tutto di Lincoln e nulla su De Nicola, conosciamo gli spettri dei castelli scozzesi ma niente di quelli italiani, crediamo ai salti sovrumani dei samurai giapponesi e ridiamo del coraggio dei nostri antichi crociati.
Del resto in Italia, siamo quelli che valutiamo i film sulla base di chi ha sponsorizzato cosa e la "grande storia" televisiva racconta una nazione nata non prima del 1920, senza un passato ed una gloria.
Ogni tanto almeno, interviene Hollywood ed ovviamente lo fa a modo suo, un modo che puo’ anche starmi bene se c’e’ una variazione sul tema e un pizzico di sano divertimento.
Due crociati e non templari come suggerisce il titolo, soldati di fede e di spada, dopo anni al servizio della guerra e della Chiesa, si scoprono braccio di una causa che li ha traditi e nel loro ritorno a casa, troveranno morte, pestilenza ed una nuova missione che li condurra’ a dover scortare una strega all’ultimo esorcismo, quello che salvera’ la terra e gli uomini dalla malattia e dalla morte, in un viaggio a dir poco periglioso.
Nicolas Cage e Ron Perlman gli interpreti principali,sono entrambi assonanti al medioevo, il primo per il "Il mistero dei templari", probabile causa del titolo italiano fuorviante ed errato, mentre il "penitenziagite" del secondo, scatena ancora oggi ricordi e suggestioni.
Direzione senza infamia e senza lode, forse non troppo efficace nello sbaglio di voler scimmiottare Peter Jackson. La coppia di duri ci sta, anzi non li vedrei male neppure come poliziotti o esattori delle tasse.
Brava anche Claire Foy, strega con quel tocco di Samara, che impreziosisce la pellicola.
Film di puro svago sul quale solo un imbecille puo’ mettersi a filosofeggiare su Dio, inquisizione, crociate e demoni quindi buon divertimento e al diavolo (!) il resto.

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Silent Hill – Christophe Gans

Silent HillGran parte del cinema americano e’ morto e l’horror e’ stato tra i primi a lasciarci.
O almeno quasi tutto.
L’ultimo horror decente visto in casa USA e’ stato questo "Silent Hill" e pur lasciando perdere videogioco e tutto quanto il resto,senza giri di parole o mezzi termini, c’e’ un solo nome che da’ senso e valore all’operazione: Roger Avary.
Non ripetiamolo ma c’e’ stato lui al fianco di Tarantino cosi’ come ha diretto tra gli altri gli ottimi "Killing Zoe" e "Le regole dell’attrazione".
Christophe Gans ha comunque i suoi meriti nel raccontare la storia non facilmente riassumibile, di una donna preoccupata dalle condizioni psicologiche della figlia adottiva al punto da ricondurla alla sua citta’ natale che si da il caso sia una citta’ fantasma distrutta da un incendio di una vicina miniera.
Giunte pero’ in citta’ la realta’ sara’ molto piu’ complessa e molto piu’ orrenda di quanto appare, tra dimensioni parallele e mostri che solo l’infermo poteva partorire.
Storia che incrocia elementi dai tanti capitoli del gioco che vivono nella pellicola in gran equilibrio e assoluta indipendenza nel senso che anche senza alcun background, e’ perfettamente comprensibile e godibile.
Il ritmo e’ perfetto, la tensione costante, l’orrore ha un volto nuovo e cinematograficamente efficacissimo.
Il gia’ lodato Avery ha riassunto e sintetizzato tre livelli di realta’ senza che per un istante ci si smarrisca perdendo il filo della storia, storia terribile e drammatica laddove i mostri si annidano in luoghi ben diversi di quanto ci e’ dato a vedere.
Effetti speciali superbi una volta tanto non per uno sfoggio di potenza ma per raccontare una favola terribile e sublime.
Si guarda e si riguarda, sperando magari in una reazione nervosa di un cinema statunitense soffocato da una politica che di corretto ormai ha solo il disgusto.. Bellissimo.

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Un commercio ideale – Achille Campanile (racconto completo)

Un commercio ideale  (tratto da "Manuale di conversazione")

«Ho trovato» mi disse lo sconosciuto mentre scendevamo dal tram al capolinea «il commercio ideale: sbarco il lunario vendendo un mio oggetto personale.»
Il discorso non m’interessava molto. M’ero accompagnato con costui per fare assieme il tratto a piedi fino a casa poiché la notte, di questi tempi, non è prudente girar da soli per certe strade deserte o mal frequentate. Tuttavia non potei fare a meno di osservare: «Come, vendendo un suo oggetto personale? Lei vuol dire: vendendo dei suoi oggetti personali»
«No,» fece lui «ripeto: un mio oggetto personale. L’oggetto che vendo è uno soltanto ed è sempre quello.»
«L’avrà venduto una volta e col ricavato…»
«No. Lo vendo continuamente.»
«Ne ha molti uguali?»
«Ne ho uno solo.»
«E come fa a venderlo più volte?»
«Non riesco io stesso a spiegarmelo. Fatto si è che lo offro, mi viene subito pagato e nessuno lo ritira.»
«È curioso» feci «e volentieri ne saprei qualcosa di più.
Che oggetto è?»
«La mia rivoltella. Dovunque mi presento per venderla, tutti appena la mostro, me la pagano quasi senza lasciarmi parlare e, quel che è più strano, senza ritirarla. Invano talvolta li inseguo per consegnar loro l’oggetto. S’allontanano in fretta e spesso addirittura correndo.»
«Senti, senti. Ma forse lei avrà la parlantina sciolta, saprà fare, come suol dirsi, l’articolo; ne decanterà il funzionamento perfetto, la maneggevolezza, la precisione?»
«Non faccio in tempo. Di solito mi limito a spiegare che non sono un commerciante di professione (il che è la verità; perché non voglio ingannare nessuno), ma che il bisogno mi costringe a privarmi di quest’oggetto. Comincio presentando la rivoltella: "Sono in miseria, mi occorrono un po’ di quattrini…".
Non faccio in tempo a finire: il cliente paga e via di corsa: io l’inseguo per consegnargli la merce, grido: "Senta…
Aspetti!": ma sì! Hanno le ali ai piedi quei dannati.»

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Manuale di conversazione – Achille Campanile

Manuale di conversazioneFinalmente, finalmente, finalmente la Rizzoli si decide a ristampare Campanile dopo un lungo periodo d’indecoroso silenzio editoriale e lo fa massicciamente con una nuova, elegante ed economica serie a lui dedicata.
Un applauso alla Rizzoli quindi che ridona il piacere di leggere un grandissimo scrittore ed autore mai abbastanza ricordato e celebrato.
"Manuale di conversazione" e’ un concentrato straordinario della capacita’ di Campanile di giocare con le parole, stravolgere le situazioni, in un certo senso reinventare gli accadimenti quotidiani semplicemente ribaltando la prospettiva dalla quale li si osserva. Leggere Campanile e’ ritrovare lo stupore provato da bambini quando da capovolti si scopriva un mondo totalmente nuovo e magico e l’incredulita’ di averlo sempre avuto sotto il naso senza accorgersene prima.
Ecco come interi racconti nascono su una sola parola, un accento cambiato, una vocale pronunciata diversamente e si ride delle situazioni, si ride dalla sorpresa, si ride di un umorismo che pare distante millenni dalla tragica ma oramai istituzionalizzata barbarie odierna.
Poi inaspettatamente, cogliendoci impreparati, Campanile offre il lato serio della sua scrittura e da funambolico giocoliere della parola diviene delicato narratore di piccole storie commoventi, persino tragiche, confermandolo fine osservatore dotato di rara sensibilita’.
Con saggezza o astuzia perche’ no, questi racconti piu’ duri sono al centro della raccolta e raggelano le risate di poche pagine prime, amplificando nel contrasto la drammacita’ e in seguito si ride ancora piu’ forte quando si riprende il ritmo gioioso e scherzoso dell’inizio. Campanile e’ meraviglioso anche per questo.
Carlo Bo nella prefazione, compie un giro molto ampio ma centra alcuni aspetti importanti dell’autore e della sua opera come "…per Campanile l’unica logica e’ quella completamente svincolata dal controllo delle nostre idee." che ben riassume l’operazione che lo scrittore compie su sintassi e logica del testo.
Alla fine possiamo goderci i racconti o la tecnica che li sottende, leggere un autore dall’arguzia non certo inferiore a Jerome K. Jerome per dire, oppure seguirlo nella logica degna di un enigmista, con la certezza impossibile da evitare, di essere innanzi ad un grande romanziere.

The Great Yokai War – Takashi Miike

The Great Yokai WarChe accadrebbe se tutti gli spiriti, spritelli, demoni ed ogni sorta di leggenda antica o inventata, scatenassero una guerra con al centro l’intera umanita’?
Le sorti del conflitto finirebbero nelle deboli mani di un ragazzino investito del ruolo di cavaliere salvatore del mondo, speranza fragile dalle fragili possibilita’ di difenderci dal male in agguato.
Si e’ gia’ scritto che Miike e’ un regista vero, uno che prima dirige, poi si guarda in tasca e conta i soldi. Gia’ i soldi, sempre i soldi e quando ne ha si lancia in imprese che rivelano quanto egli sia poliedrico e dotato.
Miike puo’ essere Tarantino, Kitano o Kim Ki-duk ma il film lo pone in un esaltante miscuglio tra Jim Henson, Joe Dante, Tim Burton e come da copertina, praticamente Miyazaki con attori in carne ed ossa o ancor meglio il mondo di Shigeru Mizuki che prende magicamente corpo e vita.
In  realta’ Miike esprime in un sol colpo gran parte della tradizione giapponese su manga, anime, live action e tokusatsu adeguandoli alla nuove tecnologie di computer grafica e non di meno rendendo omaggio a quella parte di Occidente che con trucco e pupazzoni hanno fatto arte.
Lo fa ovviamente a modo suo, spostandosi repentinamente tra il film di Natale per bambini annoiati in cerca di un gadget e l’ultraviolenza molto piu’ adulta e selvaggia che non ci ha mai risparmiato per un prodotto che proprio strizzando l’occhio a tutto e a tutti, mantiene una freschezza e una indipendenza intellettuale difficile da ricordare in altre pellicole simili, ammesso che di simile esista qualcosa.
Si perche’ l’arrivo dell’orda divertita di milioni di spiriti che compongono le favole tradizionali giapponesi, e’ uno spettacolo esilarante per chiunque, sorprendente perfino per coloro che non conoscono Miike e il suo cinema.
Egli ancora una volta smonta e rimonta un genere ponendosi come nuova pietra di paragone, indifferente a chi l’ha preceduto e fedele soltanto a se stesso e per questo offre una ragione in piu’ di ammirazione e rispetto.
Da non perdere, in attesa di un seguito sempre possibile.

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Ley Lines – Takashi Miike

Ley linesTerzo della trilogia fittizia "Black Society Trilogy", ennesimo nella carriera di Miike costellata da yakuza e delinquenti di vario tipo ed estrazione.
Ancora una storia raccontata dai bordi della societa’, tre ragazzi di origine cinese che cercano di fuggire dal degrado passando pero’ dalla porta sbagliata, quella del crimine. L’incontro anzi l’alleanza con una prostituta, cambiera’ le cose e non necessariamente in meglio.
Miike alla fine degli anni ’90, esalta le tematiche a lui care, divenendo narratore di gente rassegnata, di luoghi sporchi e umidi, dove nulla riscatta se non i soldi e la violenza sul prossimo, unica forma di rivalsa sociale. Come sempre accade nei suoi film, non esistono vincitori e vinti ma infinite declinazioni di sconfitta dalle quali talvolta viene estratto un fortunato vincitore che per strane ragioni ne esce vivo.
Forse e’ proprio la condanna ad un destino che si presume gia’ segnato a non spingere a migliorare e a cercare una strada diversa dalla violenza e dalla perdizione. Miike non si preoccupa di tracciare ellissi o vergare morali, egli semplicemente ritrae senza commentare, sempre che non farlo non sia di per se’ un commento.
Del resto i suoi protagonisti il degrado lo hanno dentro, nessuna possibilita’ di redenzione per loro perche’ la sconfitta e’ nella pelle, non nella citta’ che li circonda e il passo dalla piccola criminalita’ all’omicidio, e’ lungo quanto una canna di pistola che non esiteranno usare per fuggire, l’impossibile fuga da una violenza insita in loro.
Forse per questa ragione Miike non perdona e concede il solo fato a loro possibile.
Miike rassegnato ed bravo pure in quello.

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Blues Harp – Takashi Miike

Blues HarpNell’alternarsi di film a budget variabile e genere vario, questa volta e’ il turno della yakuza, tema che Miike sa maneggiare senza abusarne, usando il trucco se cosi’ vogliamo chiamarlo, di raccontare microstorie, quasi un quotidiano senza importanza, in fondo poca roba, almeno per chi spende la giornata a fare risse ed evitare pallottole.
Due i protagonisti, il primo un meticcio figlio della resa giapponese agli USA, piccolo spacciatore e barista con l’hobby dell’armonica a bocca, l’altro un delinquente yakuza come tanti non fosse per la smisurata ambizione di comandare il suo clan. Inseguito da una famiglia rivale, sara’ salvato dal barista del quale si innamorera’ perdutamente ma segretamente, dovendo nei suoi piani coinvolgere la donna del capo della quale e’ amante e mezzo per raggiungere il potere. Nel frattempo al ragazzo accadra’ di invaghirsi di una bella e simpatica figliola e mentre tutto pare volgere al meglio con un pargolo in arrivo un contratto discografico gia’ pronto, il destino sara’ feroce.
Film serissimo, lontano dall’umorismo al vetriolo del nostro, concentrato com’e’ su una vicenda che si annuncia drammatica sin dalle prime battute. Miike ha la capacita’ di raccontare storie di frontiera, per molti versi straordinarie, come se fuori di esse non esistesse nulla, come se l’intero mondo restasse in equilibrio tra legalita’ ed illegalita’, come se il degrado facesse parte dello sfondo quotidiano per tutti quanti, non solo i protagonisti.
Il mondo fa schifo, questa e’ la verita’, Miike non lo nasconde eppure non ne fa un’arma, non c’e’ denuncia o ostentazione ma pura rappresentazione di uno stato di cose. Non a caso il regista abbandona la consueta violenza per concentrarsi sulle tinte forti che delicatamente avvolgono una profonda tristezza per il fato che pare inevitabile per i protagonisti, come se in fondo, la redenzione sia illusione per chi e’ nato sotto una cattiva stella.
Non e’ da questo film che Miike e’ un grande regista ma certo e’ un titolo che cito quando c’e’ da snocciolare le opere piu’ significative.

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Il nocciolo della questione – Graham Greene (estratto)

Capitolo 4

"E tu, cara?" Egli le voltò rapidamente le spalle e cominciò a preparare altri due gin rosa.
C’era tra loro una tacita intesa che il "liquore aiutava": pur diventando più infelici ad ogni bicchiere, si spera sempre che arrivi il momento di sollievo.
"In realtà tu non hai voglia di sapere di me."
"Naturalmente ne ho voglia, cara. Com’è andata la tua giornata?"
"Ticki, perché sei così vile? Perché non mi dici che ogni speranza è svanita?"
"Svanita la speranza di che?"
"Tu sai cosa voglio dire: del mio viaggio. Da quando sei tornato non hai fatto che parlare e riparlare dell’Esperança. Arriva un battello portoghese ogni quindici giorni, e non ne parli così ogni volta. Non sono una bambina, Ticki. Perché non mi dici chiaramente: "Non è possibile?"."
Egli rise pieno di infelicità davanti al proprio bicchiere, facendoselo rigirare fra le mani perché l’angostura lasciasse il segno lungo la curva. Rispose: "Non sarebbe vero. Troverò qualche modo". Con riluttanza ricorse all’odiato nomignolo: se anche quello falliva, la loro infelicità sarebbe diventata più profonda e si sarebbe prolungata per tutta la breve notte di cui egli aveva bisogno per dormire. "Abbi fiducia nel tuo Ticki" disse. Era come se nel suo cervello un legamento si fosse teso in quell’attimo di sospensione. "Potessi almeno rimandare l’infelicità" pensò, "fino a che non sarà giorno." Nel buio l’infelicità è peggiore: non c’è niente da guardare eccetto le tende verdi da oscuramento, i mobili forniti dal governo, le formiche alate che battono le ali sopra la tavola; mentre a cento metri più in là i cani dei creoli abbaiano e guaiscono. "Guarda quella poveretta" disse indicando la lucertola di casa che a quell’ora veniva sempre fuori dal muro per dar la caccia alle farfalle notturne e alle blatte. Disse ancora: "Abbiamo formulato l’idea solo la notte scorsa. Queste cose richiedono tempo. Modo e mezzi, modo e mezzi" ripeté con forzata vivacità.
"Sei stato alla banca?"

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