Fame – Knut Hamsun (estratto)

CAPITOLO II

Una sera, dopo qualche settimana, ero di nuovo in giro.
Ero stato in non so quale cimitero a scrivere un articolo per un giornale locale. Avevo fatto le nove, incominciava ad annottare e il custode doveva chiudere il cimitero. Avevo fame, molta fame. Purtroppo le dieci corone erano durate assai poco. Non mangiavo da due, anzi da quasi tre giorni. Mi sentivo fiacco, sfinito dalla fatica di scrivere. Avevo in tasca un temperino e un anello da chiavi, ma non un centesimo.
Quando il portone del cimitero fu chiuso, sarei potuto benissimo andare a casa. Ma per il timore istintivo di quella camera così buia e vuota, che un tempo era stata l’officina di uno stagnino e dove finalmente avevo trovato un tetto provvisorio, mi misi a camminare alla ventura e passando davanti al Municipio scesi fino al fiordo, ai moli presso la stazione dove mi buttai su una panchina.
Per qualche minuto non ebbi nessun pensiero triste. Dimenticai la mia miseria e alla vista del porto così tranquillo e bello nella penombra mi sentii calmo. Per vecchia consuetudine volli procurarmi una gioia: quella di rileggere il pezzo scritto poco prima. Al mio cervello dolente pareva quanto di meglio avessi scritto fino allora. Presi il manoscritto, lo tenni vicino agli occhi per poter vedere e ripassai una pagina dopo l’altra. Mi stancai e rimisi il manoscritto in tasca. Tutto era silenzio. Il fiordo pareva di madreperla argentea. Gli uccelli mi volavano davanti di qua e di là. Una guardia passeggiava là in fondo, in su e in giù, e non si vedeva altra anima viva. Il porto era addormentato.
Rifeci l’inventario dei miei averi: un temperino, un anello da chiavi, ma non un centesimo. Ricacciai la mano in tasca e ne trassi fuori il manoscritto. Era stato un gesto meccanico, un guizzo incosciente dei nervi. Ne tolsi un foglietto bianco e, Dio solo sa come mi venne quell’idea, ne feci un rotolino ben chiuso ai due capi. Pareva fosse pieno. Poi lo gettai in mezzo alla strada. Spinto dal vento, esso si allontanò un pochino, poi si fermò.
La fame incominciò a torturarmi seriamente. Guardavo il mio rotolo bianco che pareva fosse pieno di monete d’argento. E incoraggiavo me stesso a credere che contenesse davvero qualche cosa. Allungavo il collo, facevo per alzarmi dalla panchina e mi invitavo a indovinare la somma contenuta. Se colpivo nel segno, era mia. E immaginavo i piccoli e graziosi pezzi da dieci centesimi, belli e lustri dentro quel rotolino per terra e, sopra quelli, le grosse corone cordonate: un rotolo di monete. Ma rimanevo seduto e contemplavo con gli occhi spalancati tutta quella meraviglia ed esortavo me stesso a rubare il rotolo.

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