Repulsion – Roman Polanski

RepulsionChe non straveda per Polanski e’ noto e che al posto di urla estatiche i suoi film al massimo mi provochino urlettini sparsi qua e la’, lo e’ altrettanto.
Nondimeno accetto senza comprendere l’entusiasmo generale e di quando in quando proseguo svogliatamente nel completare la sua filmografia.
E’ la storia di una biondissima Deneuve poco piu’ che ventenne, operatrice in un centro estetico che fin dal principio mostra a dir poco interesse se non vera repulsione nei confronti degli uomini. Appare distratta, assente ma c’e’ qualcosa d’altro in quell’atteggiamento fanciullesco e spaventato che solo la sorella con la quale convive, pare tenere sotto controllo. Sara’ proprio la partenza della sorella a scatenare nella ragazza i peggiori incubi e le peggiori conseguenze.
Confesso di far fatica a dare un giudizio sereno, un poco per la considerazione non eccelsa che ho del regista, poi perche’ arriva dopo Hitchcock che a quel tempo aveva gia’ raccontato tutto, mostrato tutto e sintetizzato tutto.
Certo e’ che nel 1965, anno d’uscita della pellicola, il pubblico era meno smaliziato ma per comprendere quale fosse il disagio della Deneuve, non servono piu’ di pochi minuti e la sua follia trasposta nel mondo reale, colpisce solo a momenti. La scansione del ritmo e’ a dir poco imperfetta, si procede a balzi discontinui con una prima meta’ del film preparatoria e il seguito con lei chiusa in casa, che e’ tutto uno squillare di campanelli e telefoni che stancamente cercano di dare brio ad un proseguo gia’ scontato. L’ultimo piano sequenza colpisce ed e’ ben realizzato, sessanta secondi che valgono a mio avviso l’intero film.
Bravina la Deneuve, guadagna punti per l’essere cosi’ giovane ma l’imbambolo suona sovente finto per quanto noi siamo comprensivi e perdoniamo.
Si guarda, in fondo e’ meglio di tanto, tanto altro e poi come dire, in fatto di violenze sui minori, Polanski ha sempre  da insegnare.

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The lucky ones – Un viaggio inaspettato – Neil Burger

The lucky onesTre soldati americani e una guerra dalla quale prendersi un pausa.
Fortunati come suggerisce il titolo?
Forse si se s’intende essere vivi e verso casa, non troppo dal momento in cui ognuno di loro porta i segni di una ferita di guerra sul corpo.
Ad ogni modo i soliti problemi del mondo civile li costringono ad un ritorno comune attraverso gli Stati Uniti, un modo per conoscersi meglio e prendere nuovamente contatto con quella societa’ per la quale hanno combattuto.
Il tempo trascorso al fronte ovviamente avra’ cambiato le cose quel tanto che basta per trasformare i desideri, i bisogni, le ambizioni.
Questo film e’ tante cose, forse troppe per tracciare un solco che resti.
E’ un road-movie, ammesso che abbia ancora senso parlare di viaggi in accezione zen dal momento in cui la melassa dei nuovi e vecchi media ha schiacciato da tempo ogni peculiarita’ etnica e territoriale e dove non e’ arrivata internet e la televisione, hanno provveduto le multinazionali del cibo, della moda e dell’entertainment e per questo la sterminata America ha loi stesso cielo, le stesse nuvole, le stesse case, tutte meravigliose ma altrettanto spaventosamente uguali.
E’ una blanda analisi sul ruolo degli USA nel panorama internazionale e sulla percezione della guerra da parte degli americani. Certo, per quanto con eccessiva enfasi ma abbiamo visto, letto e ascoltato abbastanza per sapere che il monologo di Rambo non era poi cosi’ alieno alla realta’ dei fatti, le cose sono cambiate e molti oggi ringraziano i soldati che tornano per quanto non manchino i giovani celebrolesi da uso eccessivo di televisione e i vecchi imbecilli che giudicano il mondo dal divano del proprio ricco soggiorno.
Per il resto non si va oltre e attenzione, e’ tutt’altro che un difetto
E’ una storia non troppo originale sull’amore e l’amicizia, nel senso che non aggiunge e non toglie nulla a quanto il cinema ha passato sin qui.
Non e’ il mio genere di film ma volevo e dovevo procedere nella filmografia di Neil Burger dopo gli entusiasmanti "The illusionist" e "Limitless". Non voglio dire sia rimasto deluso, semplicemente e’ un’opera troppo facile per uno coi mezzi di Burger. Si puo’ riconoscere la sua mano nei colori saturi, nel generale buon ritmo e nell’ironia ma per il resto e’ un film che avrebbe potuto girare quasi chiunque. Non un passo falso ma un passo inutile. Andiamo oltre.

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Lettera di commiato di Vladimir Majakovskij

A tutti. Se muoio, non incolpate nessuno.
E, per favore, niente pettegolezzi. Il defunto non li poteva sopportare.
Mamma, sorelle, compagni, perdonatemi.
Non è una soluzione (non la consiglio a nessuno), ma io non ho altra scelta. Lilja, amami.
Compagno governo, la mia famiglia è Lilja Brik, la mamma, le mie sorelle e Veronika Vitol’dovna Polonskaja.
Se farai in modo che abbiano un’esistenza decorosa, ti ringrazio. […]
Come si dice, l’incidente è chiuso. La barca dell’amore si è spezzata contro il quotidiano.
La vita e io siamo pari.
Inutile elencare offese, dolori, torti reciproci.
Voi che restate siate felici.

Compagno governo – Vladimir Majakovskij

Compagno governoQuando si e’ bandiera di due movimenti contrapposti, laddove una singola figura si stagli imponente al centro di due schieramenti e quando la parola di un poeta echeggia nelle lodi di fazioni diverse, allora deve esserci una Verita’ piu’ grande e alta e importante delle singole parti, ed e’ possibile, pur senza convergere, che filosofie diverse in un punto si sfiorino e chissa’, possano iniziare un dialogo.
Majakovskij con la sua morte, divenne quel punto, la zona franca delle idee nella quale ognuno puo’ ritrovare se stesso e l’altro ma soprattutto un esempio di onesta’ intellettuale non seconda all’arte che esprime.
La raccolta di lettere e discorsi nel ventennio che va dal 1910 sino alla sua morte avvenuta nel 1930, aiuta a comprendere le sue pulsioni ma ancor meglio e piu’ importante, forniscono un quadro piuttosto preciso sul Majakovskij politico, sulla passione viscerale ed infuocata che non si contrappone affatto alla sua poesia anzi si aggiunge alla straordinaria energia che la permea e caratterizza.
La forza con la quale difende le sue tesi non e’ seconda a quella impiegata a smontare quelle altrui e soprattutto non cede di un passo innanzi le difficolta’ di un pubblico ostile o di una critica ancora piu’ severa.
La fede nel socialismo ha retto in lui sino alla fine e se l’amore e’ fatto di contrasti e timori, la politica come la poesia non mostra il fianco a cedimenti ed indecisioni o cosi’ pare voler dare un senso al suo impegno e alla sua vita, malgrado qualcosa che ad un certo punto in lui si spezzo’.
Che il suicidio di Majakovskij sia ad oggi non del tutto compreso lo si evince anche da questo libro dove giusto le note in quarta di copertina di Viktor Sklovskij fanno comprendere non senza poesia, le ragioni del suo gesto o almeno tentano una possibile spiegazione.
"Perito perche’ ha cessato di amare" e nell’epigramma tutta la cauta e circospetta motivazione che in fondo accontenta ogni punto di vista, avvantaggiato forse dal fatto che ogni punto di vista e’ rappresentato nella sua fine.
Disdicevole ma prevedibile, che il regime abbia orwellaniamente trasformato Majakovskij in un eroe e paladino del comunismo, a mio avviso il segno reale e tangibile delle vere motivazioni del suicidio.
Anche la sbrigativa interpretazione, paura di invecchiare, data da Lilja Brik, sua compagna di una vita, fa pensare a ragioni molto piu’ complesse e da lei inesprimibili, per ovvie ragioni.
Ad ogni modo cio’ che piu’ importa e’ strappare Majakovskij dalle grinfie del simbolo e riportarlo ad una dimensione umana che meglio si si addice, nobilita e commuove, forza di sangue e pensiero che nel Poeta trovano degna rappresentazione.

Introduzione al testo di Gabriele Mazzitelli

La caduta degli dei – Luchino Visconti

La caduta degli deiGermania 1934. Il nazionalsocialismo e’ forte ma non abbastanza. Potra’ avere radici forti per la nazione ma non per l’Europa, non per la conquista del mondo. Come una pianta maligna e velenosa e’ gia’ entrato nel tessuto sociale ed economico e il Cancelliere, cosi’ viene evocato Hitler, stende il suo lungo braccio nero in ogni zona del paese, a fondo all’interno delle industria pesante, fucina in tutti i sensi del futuro esercito nazista.
Ecco come i conflitti interni alla famiglia Von Essenbeck, importanti magnati dell’acciaio, si andranno presto a mescolare agli intrighi politici della nazione e i lunghi coltelli colpiranno fuori e dentro la ricca casa.
Come giudicare questo film. Visconti e’ piu’ impegnato a raccontare la storia che a girarla e per quanto la cura nei particolari, le luci e quel suo aggirarsi con la camera nello scovare e sottolineare perfette minuzie sia sempre presente, lo sforzo di rappresentare mostri e non uomini prende il sopravvento.
Luci vivide come fari di un teatro osceno ispireranno Fassbinder che non mi sorprende ne rimase folgorato.
Per Visconti esistono due categorie di nazionalsocialisti: i violenti, beceri ed ignoranti e gli inetti lascivi, pedofili e pederasti, calcando meno sui pederasti per ovvie ragioni anche se certe sequenze fanno immaginare Visconti che squittisce quando circondato da cristoni biondi mezzi nudi. Per non farsi mancare nulla si aggiunga all’elenco dei crimini, droga e incesto che trasformano l’ultima mezz’ora di film in un grottesco e abominio. Voglio dire, ci si fosse limitati al "male assoluto" magari qualcuno se la beveva, ma tanta roba tutta assieme e’ puro avanspettacolo.
Non dimentichiamo gli assassini e le donne del regime, tutti prototipi delle future "Elsa la belva delle SS" anche grazie alla sublime interpretazione della bergmaniana Ingrid Thulin assieme ad Helmut Berger, una delle poche ragioni a dare senso al film..
In effetti se c’e’ da trovare un merito e’ quello di aver solleticato i bassi istinti del popolino e del popolone innestando una curiosa quanto grottesca infinita clonazione in quel nazi-porno che prima o poi qualcuno dovra’ seriamente spiegare, ammettendo finalmente che un’epoca che ha potuto partorire simili film, andrebbe eliminata dai libri di storia e dalla memoria di tutti.
Lo ripetero’ allo sfinimento e alla noia, non sopporto il cinema di chi se la canta e se la suona, indipendentemente dalla canzone e qua la musica va avanti per quasi tre ore.

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Vaghe stelle dell’Orsa – Luchino Visconti

Vaghe stelle dell'orsaDa tempo meditavo un ritorno su Visconti ma aspettavo di sentirmi annoiato al punto giusto.
No, non sto denigrando il nostro, anzi  tutt’altro dal momento in cui abitualmente guardo il cinema che l’istinto mi suggerisce e queste giornate uggiose predispongono ad una maggiore concentrazione e calma interiore.
Inizio con "Vaghe stelle dell’Orsa" perche non ricordo di averlo visto prima, per curiosita’ su un Visconti pre-successone, poi il soggetto, infine per Claudia Cardinale che quando c’e’ lei, levati.
E’ proprio Claudia ad aprire le danze, giovane moglie di ricco borghese, domicilio francese e un ritorno in Italia per risolvere alcuni questioni rimaste in sospeso.
Da subito qualcosa stona, un alone nemmeno troppo velato di segreti e misteri fa capolino nelle piccole bugie di lei e nella sempre peggio celata perplessita’ di lui ma sara’ l’arrivo del fratello, col quale condivide un rapporto palesemente morboso, a scatenare i primi dubbi.
Un padre ebreo tradito durante la guerra e morto nei campi di concentramento, una madre malata ed esiliata dal mondo, un patrigno nervoso ed un ex fidanzato, partecipano alle danze, gettando di minuto in minuto, benzina sul fuoco della storia.
Film complicato, molto complicato. Nel 1965 promisquita’ ed incesto era roba tosta e Visconti lo affronta a testa alta.
La carne c’e’ tutta, il sudore pure, celati da un chiaroscuro formidabile di Armando Nannuzzi, nel quale la mano del maestro si vede eccome perche’ di Visconti si puo’ dire tutto ma non che non sappia fare Cinema.
Il testo talvolta incespica, alcuni dialoghi restano legnosi, Visconti che scopre subito le carte per poi ricoprirle, dinamiche lasciate solo intendere quando ormai si stava gia’ guardando nell’abisso, molte strade intraprese ma non tutte percorse sino in fondo.
Il risultato e’ comunque grande e corale merito di una Cardinale formidabile, incredibilmente piu’ brava che bella ed e’ bella da morire. Non sfigura affatto Jean Sorel nel ruolo del fratello, anzi guadagna nel mio personalissimo cartellino non pochi punti, cosi’ come nel piccolo ma importante ruolo del patrigno, mi ha impressionato Renzo Ricci, un ragazzo del ’99 con un curriculum lungo come una strada provinciale.
Per una volta concordo con la critica "amica" che non ha fatto mancare premi e onori ma che dire, anche questi ogni tanto capiscono di cinema…

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La calda amante – Francois Truffaut

La calda amanteLui celebre scrittore che tiene famiglia, lei hostess di linea che tiene vent’anni.
Un viaggio di lavoro, un giorno lontano da casa ed ecco che tra i due avviene il fattaccio.
E’ che l’uomo maturo a certi richiami non resiste vanificando anni di saggezza accumulata, quindi ci si infila allegramente dentro a storie ingestibili fatte di sotterfugi, bugie, corse contro il tempo e contro il buonsenso.
Nello splendore dei miei 45 anni sono nel centro esatto della zona rischio eppure non posso fare a meno di ridere del protagonista, col quale solidarizzo ci mancherebbe ma non invidio. E’ che in certe situazioni o ci si fionda da scapolo impenitente oppure si corre il rischio di farsi davvero male, specialmente se in ballo c’e’ una bella famiglia e una carriera pubblica.
Ironicamante, la cosa piu’ divertente della pellicola e’ l’assoluta mancanza di humor anche perche’ Truffaut aveva tanti pregi ma non era certo un compagnone, non a giudicare dai suoi film, certo.
Ci prova ad imbastire situazioni che in mano ad altri potevano essere spassose ma con lui si forma una specie di angoscia permanente che alla fine tende alla tragedia con una leggera enfasi di troppo, tralasciando ovviamente il finale tanto drammatico quanto asciutto che dopo un breve accenno di suspense, si compie come previsto.
Forse la vera ironia sta nel confronto col libertino "Jules e Jim". Non che vi siano legami diretti ovviamente se non nel contrasto voluto tra diversi modi di amare, sicuramente piu’ ordinario ne "La calda amante"  e per questo banale.
Forse e’ un film sottovalutato, certo molto invecchiato, del resto e’ passato da allora quasi mezzo secolo ma in fondo si tratta di una situazione senza tempo che nel confronto delle stagioni, semmai ci ricorda quanto poco idee e societa’ cambino malgrado i decenni che passano.

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Il richiamo della foresta – Jack London (estratto 1)

Era un viaggio duro, con la slitta postale dietro di sé; e il rude lavoro logorava i cani. Quando arrivarono a Dawson erano in cattive condizioni di salute e avrebbero avuto bisogno di almeno dieci giorni di riposo. Ma dopo due giorni scesero ancora lungo le rive del Yukon giù dalle Baracche, carichi di lettere per il mondo lontano. I cani erano stanchi, i conducenti di cattivo umore, e per colmo di misura ogni giorno nevicava. Questo significava strada molle, maggiore attrito dei pattini e maggiore fatica per i cani; i conducenti tuttavia furono molto umani durante il viaggio e fecero per gli animali il meglio che poterono.
Ogni notte per prima cosa si occupavano dei cani, che mangiavano prima dei conducenti. Nessun uomo avrebbe mai pensato a ficcarsi nel suo sacco di pelo prima di avere esaminato attentamente le zampe dei suoi cani. Ma le loro forze venivano meno. Dall’inizio dell’inverno avevano percorso milleottocento miglia trascinando slitte per tutta questa distanza; e milleottocento miglia pesano anche sul cane più resistente. Buck resisteva, incitando i compagni al lavoro e mantenendo la disciplina sebbene fosse anche lui molto stanco. Billee piangeva e mugolava regolarmente ogni notte, dormendo. Joe era più immusonito che mai e Sol-leks era inavvicinabile sia dalla parte dell’occhio cieco sia dall’altra.
Ma più di tutti soffriva Dave. Qualcosa in lui andava male.
Divenne cupo e irritabile. Si scavava subito la sua buca non appena veniva piantato il campo, e il conducente andava là a portargli il cibo. Appena liberato dal finimento e buttatosi giù, non si alzava fino al mattino. A volte, lungo la pista, se era scosso da una fermata improvvisa o dallo strappo di una partenza, guaiva di dolore. Il conducente lo esaminò, ma non trovò nulla.

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Trattato di filosofia futurista – Riccardo Campa

Trattato di filosofia futuristaDovete immaginare la mia felice sorpresa scoprendo che Riccardo Campa aveva pubblicato per gli amici della Avanguardia 21, giovane casa editrice fondata tra gli altri da Antonio Saccoccio, specializzata nello studio e divulgazione di avanguardie storiche come appunto il Futurismo, le sue piu’ recenti incarnazioni letterarie e altri tipi di media.
Seguo da tempo Campa per via del suo impegno con l’Associazione Italiana Transumanisti, di cui e’ presidente e fondatore della sezione italiana ma ancor meglio grazie alla collana "Transumanesimo" della Sestante Edizioni, che lo vede curatore dei volumi "Divenire" e autore di diversi altri trattati.
In sostanza Campa e’ il perno attorno al quale ruota la concezione attuale del futurismo affiancato all’idea transumanista, una figura centrale in Italia, per entrambi i movimenti e tra le eccellenze internazionali con la competenza necessaria per trattare l’argomento o gli argomenti in questione.
Ebbene la missione possibile di Campa e’ investigare sulla possibilita’ che il Futurismo sia o meno una disciplina filosofica oltre che un movimento artistico e letterario, cercando in qualche modo di gettarne le basi attraverso i tanti manifesti esistenti e le opere degli illustri membri che in passato ne hanno definito il pensiero.
L’autore in un recente convegno dedicato al Futurismo (che mi ha visto presente nell’ambito dell’Elettrorumorismo Duemila), pone all’inizio del suo intervento un assunto che riassume e giustifica l’intera operazione, ovvero esiste un Futurismo, per definizione maiuscolo, che si riferisce al movimento artistico marinettiano del 1909 e che in quanto tale, ha limite e definizione nel periodo storico e nella cultura dell’epoca oggi impossibile da evolvere, solo riprodurre.
Esiste pero’ un futurismo, che definiamo minuscolo, al quale ci si riferisce come disciplina, come filosofia appunto, percio’ non limitata al periodo e perfettamente attualizzabile e praticabile ancora oggi.
Campa per necessita’ esordisce smontando l’assunto iniziale di Marinetti che il Futurismo sia un movimento antifilosofico e anticulturale, dimostrando come in realta’ le parole restino tali innanzi a fatti comprovati che spingono nella direzione opposta. Serve scavalcare l’apoteosi dell’uccidere il chiaro di Luna per confronti e riferimenti non solo interni al movimento ma anche al di fuori, in special modo nei confronti piu’ ovvi ed inevitabili col marxismo e fascismo.
Che l’eredita’ del Futurismo non sia solo formale lo si evince dalla capacita’ dei suoi adepti di preconizzare idee e tendenze non solo sull’arte e sulla filosofia ma sulla tecnica e societa’, una chiara visione di un futuro per tanti versi simile al nostro attuale. Anzi e qui interviene il Campa transumanista, vi sono straordinari elementi coincidenti tra le due correnti di pensiero al punto di fare l’uno logica conseguenza dell’altro, eredita’ spirituale mutuata da una dottrina comune che pone le capacita’ dell’uomo al centro del suo destino.
Non esiste un riassunto, serve seguire Campa nel suo articolato percorso sin dentro la conclusione non cosi’ ovvia ma nemmeno troppo improbabile per un movimento, quello Futurista, dalle basi concettuali talmente solide e definite da non lasciare spazio a chi vuole relegarlo a semplice corrente artistica se non a fenomeno di costume.
Campa sa essere esaustivo e farsi comprendere anche ai non addetti del settore e non v’e’ limite alle conoscenze dei lettori. Testo unico e importante, lettura che aiuta a comprendere un secolo di storia e certamente molti, molti altri anni ancora a venire.

"La tecnica e’ la scelta esistenziale dell’Europa, la fede dell’Occidente, che ha deciso di rinunciare alla contemplazione per consacrarsi all’azione, ha negato l’essere per abbracciare il divenire […].
Il futurismo rappresenta la piena consapevolezza di questo atto di fede."

Il fascino discreto dell’oggetto, Sean Scully – Roma 13-04-2013

All’interno della Galleria Nazionale d’Arte Moderna, assieme alla mostra sul Giappone, era presente quest’altra intitolata "Il fascino discreto dell’oggetto".
Nature morte quindi, in ogni possibile declinazione unite dall’asse temporale che va dal 1910 al 1950, 150 opere che spaziano dalla ritrattistica piu’ comune alle avanguardie piu’ estreme.
Morandi 1Tutte le opere appartenenti alla collezione della Galleria Nazionale d’Arte Moderna, sono scelte dai curatori come piu’ importanti e significative tra le trecento disponibili ed evitando quadri gia’ esposti in altre occasioni, quindi offrendo qualcosa di nuovo anche agli habitué del museo.
Considerato un genere minore, la natura morta esiste e resiste nel tempo grazie all’essere privo di messaggio, di racconto, di omaggio, di devozione ed espressione che non sia la rappresentazione di un segno.
Pura grafica ma solo in apparenza, percorso a tema per gli artisti in vena di sperimentazioni che non desiderano mostrare il fianco ad alcun tipo di speculazione. La natura morta in realta’ puo’ essere molto altro come ha insegnato Morandi ma nello spirito dell’esposizione, limitiamoci al disegno. Ho citato Morandi che ovviamente la fa da padrone e aggiungo con ampio merito ma il suo nome si mescola ad altri noti come De Chirico, Pirandello e de Pisis e ad altri meno celebri se non del tutto ignoti, almeno per me che non opero nel settore. 
Interessante anche se devo dire che il meglio viene indubbiamente dai "soliti noti" che non a caso hanno un loro perche’ e basta uno sguardo per comprendere quale sia.
Sean Scully 1Confesso invece che sino a questa esposizione, il nome di Sean Scully mi fosse completamente sconosciuto.
Nato a Dublino nel 1945, cosmopolita per vocazione, con la sua arte astratta ha esposto opere nelle gallerie in tutto il mondo.
Qui troviamo rappresentate le due serie Change e Horizontals, oltre a una serie di bozzetti preparatori e qualche acquarello.
E’ attraverso il colore sovrapposto a strati graduali e graduati che le opere di Scully acquistano un’impressionate spessore sensoriale, quasi tattile nello stagliarsi energico del nastro adesivo che spezza nel cambiamento (change), l’orizzontalita’ (horizontal) un volontario effetto rappresentativo di skyline metropolitane sulla quale la luce si rifrange sistematicamente ed ordinatamente.
Qualcosa di molto simile ai quadrati di Josef Albers, giocando pero’ non sul contrasto cromatico quanto sulle variazioni luminose delle diverse sovrapposizioni di colore e differente consistenza dei materiali.
Scully non e’ un innovatore ma le sue variazioni sul tema, offrono all’astrattismo qualche nuovo vocabolo.

Galleria Nazionale d’Arte Moderna: Il fascino discreto dell’oggetto
Galleria Nazionale d’Arte Moderna: Sean Scully: Chnage and Horizontals