Walter Chappell – Modena e suoi fotografi 1870-1945 – Modena 14-09-2013

Walter Chappell 1Continua a Modena la rassegna sui fotografi americani e dopo la collettiva "Flags of America", il protagonista questa volta e’ Walter Chappell.
Convinto naturalista e ambientalista, percorse con anticipo quelle tendenze che nel movimento hippy ebbero poi facile sbocco. Artisticamente affianca per molti versi lo spirito di Adams, senza ovviamente raggiungerne la perfezione tecnica, forse piu’ simile a Edward Weston perlomeno per un tratto di carriera dove la natura veniva colta nella sua forma piu’ stilizzata, transitando per uno stadio di confronto e assimilazione con l’essere umano.
Se Weston pero’ spinse la ricerca sul piano espressivo, per Chappell invece fu trasfigurazione assimilata in comunanza, pura filosofia ambientalista e se in Weston sia l’uomo che la natura si allontanavano dalla loro stessa essenza trasformandosi in linee e curve tendenti all’astrazione, Chappell ricerca la fisicita’ degli elementi, similitudine nei corpi che paiono terra e terra che rimanda ai corpi in un intento iperrealista che alla fine e’ quanto maggiormente lo differenzia dai suoi colleghi e caratterizza il suo lavoro.
Il grosso della sua produzione ha ruotato attorno ad un unico concetto, non fossilizzandosi pero’ su un unico stile, declinando cio’ che definiva camera vision, tecnica che mirava a cogliere le immagini come si formano nello sguardo, in momenti anche molto diversi tra loro che nel tempo si sono succeduti e che lega  "Light an water" sino al portfolio "Metaflora".
La sua vita, come la sua fotografia, si costitui’ delle tante mogli e figli che ebbe, i corpi di ognuno esposti, filosofia di vita fatta arte, sincerita’ dell’esistere che nel mettersi letteralmente a nudo, rafforza la straight photography forse nella sua forma piu’ estrema. Arrivato all’esplicito del lingam e yoni trovo abbia superato il confine scivolando nel banale e nel retorico, un peccato mortale per un artista che dell’espressione ha fatto il proprio vanto, perche’ l’ordinario deve andare oltre la normale rappresentazione. Ad ogni modo nulla da dire, una visita e’ dovuta.

Modena e i suoi fotografi - BandieriCome pregevole abitudine della Fondazione Fotografia modenese, alla mostra principale si affiancano alcune esposizioni collaterali altrettanto interessanti. La prima e’ "Modena e suoi fotografi 1870-1945", un omaggio alla citta’ attraverso le immagini di storici studi fotografici che mettono a disposizione alcuni tra gli scatti piu’ rappresentativi del territorio, dei modenesi e della tradizione che diventa cultura di un popolo.
Forse Modena non sara’ la capitale mondiale della fotografia ma ha saputo donare nel corso del tempo, una testimonianza viva e vitale di tecnica che sa diventare arte e comunque sia chiaro, Modena e i suoi fotografiModena e la tecnologia in un passato purtroppo remoto, andavano sovente a braccetto.
Fotoamatori che si trasformano in imprenditori, dando vita ad atelier caratterizzati da stili unici e bene definiti, come lo Studio Sorgato molto presente nelle istituzioni, Studio Bandieri sensibile allo sviluppo urbanistico, lo studio Orlandino vicino alla tradizione o i piu’ vicini alla fotografia declinata all’arte in senso stretto come Testi e Carbonieri.
L’interesse per questa esposizione travalica il territorio per quanto l’appartenenza ai luoghi ne amplifica la portata e il piacere.

Altro evento collaterale, questa volta collegato al Festival della Filosofia quest’anno dedicato al tema dell’amore, e’ "Principianti – Di cosa parliamo quando parliamo d’amore", incrocio simpatico tra Carver, festival e nuove leve della fotografia, nove studenti del master tenuto presso la Fondazione, alle prese col tema "amore" espresso attraverso esperienze Principianti - Serraindividuali e sensibilita’ diverse che portano ad interpretazioni sull’argomento molto variegate e peculiari.
C’e’ l’iperrealismo di Mammarella, l’introspezione da grande parete di Pasquaretta, i contrasti di Mainieri o la ricerca espressiva di Quadri.
Infine Cristina Serra col suo fenomenale dittico che come due parentesi racchiude l’amore nella sua accezione piu’ dolorosa, talvolta inevitabile.
Non tutto e’ memorabile ma c’e’ qualche bella scoperta.
Aperta fino al 13 ottobre 2013, merita anch’essa una visita.

Walter Chappel – Eternal Impermanence
Modena e i suoi fotografi 1870-1945
Principianti

Io sono Helen Driscoll – Richard Matheson

Io sono Helen DriscollTom il protagonista, viene ipnotizzato per gioco dal cognato e da quel momento la sua mente comincera’ a giocargli brutti scherzi con visioni, premonizioni e lettura del pensieri ma quel che e’ peggio, mettendolo in contatto con uno spettro di donna che aggirandosi per casa, gli togliera’ sonno e tranquillita’, scoprendo in realta’ che la sua casa nasconde un segreto.
Richard Matheson e abbiamo gia’ dato una garanzia. Terzo di una trilogia di libri fenomenali come "Io sono leggenda" e "Tre millimetri al giorno", fa capire in quale stato di grazia si trovasse l’autore verso la meta’ degli anni ’50.
Molto piu’ dei predecessori, ci si sposta verso, l’horror con accentuati contorni thriller, in sostanza Edgar Allan Poe ai tempi di Hitchcock.
La tensione e’ straordinariamente dosata, ritmo veloce che non tralascia nulla e nulla concede al caso per quanto e un po’ mi ha sorpreso, l’eloquio sia a tratti appesantito, stile da manuale di scrittura che non concede troppo alla fantasia, per quanto nulla inficia la bella lettura.
Decisamente efficace il finale a sorpresa perche’ la sorpresa c’e’ veramente laddove la conclusione fino all’ultimo pareva scontata ma con un colpo di coda si risolve in maniera inaspettata e molto cinematografica nella costruzione che si costruisce nella mente del lettore con grande effetto.
La poca attenzione al titolo svela una parte del mistero ma in fondo e’ solo un anticipo di qualche pagina mentre se si fosse mantenuto il titolo originale "A stir of echoes", avrebbe fotografato meglio l’idea senza intaccarne la sostanza, rimandando direttamente al film omonimo del 1999, in Italia "Echi mortali", diretto da David Koepp e magistralmente interpretato da Kevin Bacon, pellicola che merita di essere vista e che non si ostacola troppo col romanzo.
Un Matheson cosi’ non si discute e non permette indecisioni, si legge punto e basta.

Echi mortali – David Koepp

Echi mortaliTanto piaciuto il libro, tanto buono il ricordo del film, tanto il tempo che non lo vedevo e come non rispondere all’orda di superlativi che urla e pretende una nuova visione?
Kevin Bacon e’ un padre di famiglia molto ordinario, vita modesta ma tranquilla in un quartiere popolare e popolano ma tutto sommato piacevole. Sara’ durante una festa di quartiere che per gioco si fara’ ipnotizzare dalla cognata ma da quel momento la sua mente si popolera’ di orrende visioni di una ragazza scomparsa pochi mesi prima del suo arrivo e che ora vuole comunicare con lui.
Si viene a sapere che anche il figlio e’ un sensitivo e grazie ai suoi poteri speciali, scoprira’  che nella loro casa e’ avvenuto qualcosa di terribile.
Lo dico e lo ripeto, il film e’ fenomenale, uno degli ultimi thriller horror made in USA con un minimo di senso. David Koepp conosce il mestiere a menadito e sa giocare come pochi con la tensione, fregando al momento giusto anche lo spettatore piu’ smaliziato.
Oltre ad una grande regia, ci troviamo di fronte ad una grande sceneggiatura. Il canovaccio offerto da Matheson e’ ottimo s’intende ma lo script di Koepp lo supera migliorandolo. Certo, i libri sono tondi e i film quadrati, inutili i confronti ma se "Io sono Helen Driscoll" negli anni ’50 poteva avere meno pretese per un pubblico piu’ innocente, nel nuovo millennio andava rimodernata e adeguata al grande schermo.
Matheson non se ne avra’ male se preferisco questa versione.
Ultimo tassello gli interpreti. Kevin Bacon e’ un grande attore e malgrado la fama e il successo, non e’ stato ancora adeguatamente preso sul serio. Anche in un film tutto sommato non autoriale come questo, se ne esce alla grande confermandosi ottimo protagonista. Non di meno il giudizio e’ positivo sulla bella Kathryn Erbe, degna partner e al bravo Zachary David Cope, uno dei pochi bambini con una vera marcia in piu’.
Libro e film, accoppiata perfetta anche perche’ si concludono in modo molto diverso e i confronti danno sale ad una vicenda comunque molto ben sviluppata.

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I giorni del cielo – Terrence Malick

I giorni del cieloStati Uniti inizio del secolo scorso. Richard Gere il protagonista, dopo aver commesso omicidio, fugge con la fidanzata e la sorella per diventare braccianti in Texas. I tre si fingono fratelli e le stagioni passano, il lavoro e’ massacrante, il proprietario terriero s’arricchisce sempre piu’ mentre loro sopravvivono a stento.
Sara’ il padrone, Sam Shepard, ad innamorarsi della ragazza e Gere a spingerci dietro dopo aver scoperto che al ricco rimangono pochi mesi di vita. Si sa, una bella figliola tra le mani fa miracoli ma non tutti saranno felici di questo.
Tanto tanto entusiasmo, premi, Oscar per la fotografia e blabla fratelli.
Non so, non mi convince o meglio non mi entusiasma, non mi emoziona, non mi scalda, non mi esalta.
Sara’ un problema di pelle, forse un diverso modo d’intendere la poesia cinetica della settima arte ma Malick mi annoia. Si certo, begli spazi aperti, begli animaletti infilati qua e la’, bei tramonti, belle albe, bello tutto. Cheppalle pero’.
Solita voce fuori campo pregna di banalita’, la stessa in ogni suo film o forse sono io che non reggo l’aria fritta svaporata simil-Coelho. Anche il soggetto non mi aiuta perche’ l’etica rognosa del quinto stato m’interessa quanto la filettatura di un bullone del 15 ma capisco che cio’ basti ai salvatori del mondo uniti ma tant’e’.
Efficaci alcune scene, ben girata l’invasione delle cavallette e l’incendio conclusivo ma quanta erba sbattuta dal vento dobbiamo vedere agitarsi, per pochi minuti di piacere?
Presenza preziosa invece quella di Richard Gere alle prime armi, nel film che lo fece notare al grande pubblico e soprattutto agli addetti ai lavori. Gere e’ un attore che ho sempre ammirato e apprezzato, perfetto nella prima parte della sua carriera per i ruoli malandrini, partendo alla grande con una storia che tutto sommato lo agevola.
Ottimo Sam Shepard. Intenso eppure misurato, la faccia giusta e la giusta tensione al personaggio, il saper trasmettere l’essenza della brava persona con uno sguardo.
Altra sufficienza a Malik, senza aggiungere e togliere altro.

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The Kilowatt Hour (David Sylvian, Christian Fennesz, Stephan Mathieu) – Bologna 24-09-2013

The Kilowatt Hour 2Ad un anno di distanza quasi esatto, roBOt Festival ricompone il duo Sakamoto – Sylvian, inaugurando le diverse edizioni in un ideale abbraccio tra i musicisti.
Non sono mancato l’anno scorso, non potevo mancare neppure quest’anno. Sylvian lo conosciamo tutti, purtroppo per pochissime sue cose che ebbero pero’ un successo impossibile da quantificare. Lo conosciamo anche per i Japan, il progetto che l’ha portato a farsi ricordare dal grande pubblico e che meglio lo identifica. 
Oggigiorno Sylvian persegue un percorso piu’ elettronico e sperimentale, come avviene per Christian Fennesz, musicista austriaco che di sperimentazione ci vive e alle spalle un numero enorme di collaborazioni, tra le quali Sakamoto e l’artista tedesco, musicista elettroacustico Stephan Mathieu che gia’ in passato ha lavorato con Sylvian.
Progetto tosto sulla carta e l’occasione si fa ghiotta.
Inizio concerto puntualissimo, quasi un evento, i tre ben distanziati, ognuno col proprio armamentario.
Stephan Mathieu ad un estremo del palco, rumori, riverberi elettronici, echi e distorsioni, e’ l’anima elettroacustica del trio. Al centro Christian Fennesz, tesse il campo sonoro modulando il pattern di fondo, intervenendo sovente con la chitarra che filtrata digitalmente si disintegra e si ricompone talvolta in urlo, altre sospiro elettronico.
Infine Sylvian, etereo, angelico, spirito senza tempo che si divide tra lo Steinway e il laptop, scivola placido sulla superficie ambient in antitesi a Fennesz ma senza contrapposizioni, senza antagonismo, puro alternarsi.
Quarto elemento del trio, Franz Wright, poeta vincitore del premio Pulitzer, in un recitativo registrato e sovrapposto senza elaborazioni o altri interventi.
The Kilowatt Hour 1Tirata unica, un’ora poco piu’ che abbondante, del resto cosi’ prometteva il progetto e poi tutto e’ finito.
Resta qualcosa di buono, ma c’e’ delusione.
Il difetto principale dell’operazione e’ che manca di una struttura programmatica che non sia la convivenza di tre elementi, col minor rumore possibile. La texture resta invariata per tutto il tempo, Fennesz e Sylvian non creano alternativa, si limitano a coesistere senza invenzioni affidandosi alle punteggiature di Mathieu come unico tratto distintivo tra un passaggio e l’altro. Non c’e’ sviluppo minimale e neppure un coinvolgimento psicoacustico, non ci si stacca da uno sfondo piu’ adatto ad un contesto multimediale che ad una esibizione live. Non c’e’ traccia di un minimalismo in levare, soltanto quattro semplicita’ sovrapposte
La stessa voce di Franz Wright si stende senza interferire col resto, indipendente da cio’ che accade, integrazione che non e’ comunione ma indifferenza.
Sylvian e’ un evento comunque e proprio per questo ci si poteva aspettare una evoluzione ancora piu’ spinta sul percorso sperimentale ed elettronico di questi ultimi anni mentre si e’ limitato a nascondersi in una essenzialita’ eccessiva e improduttiva.
Occasione mancata per assenza emozionale.

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David Sylvian
Christian Fennesz
Stephan Mathieu

La rabbia giovane – Terrence Malick

La rabbia giovaneAnche i Malick hanno iniziato da piccoli. Film del 1973, esordio del regista e trampolino di lancio per un giovane Martin Sheen ed una ancora piu’ giovane Sissy Spacek, che s’ispira alla vicenda di novelli Bonnie & Clyde che alla fine degli anni ’50 terrorizzarono il sud degli Stati Uniti. In realta’ il loro intento non fu quello di compiere rapine ma erano giovani, incoscienti e senza un briciolo di senso morale percio’, dopo aver ucciso il padre di lei, ragazzetta quindicenne innamorata di uno spiantato dieci anni piu’ vecchio, iniziano una fuga spianata a suon di fucilate contro chiunque gli si parasse davanti. Poteva solo finire male.
La prima domanda che ci si pone e’: cosa c’e’ del Malick che verra’?
La natura innanzitutto, lo sguardo trasognato del regista che si traduce in lente ma estasiate carrellate tra rami, cespugli, animaletti vari e macro riprese d’insetti.
Gli umani non sono esseri umani ma elementi appesi ad un soffio di vento, ad un raggio di sole, elementi naturali in apparenza non dotati di libero arbitrio ma comandati dall’istinto e dal momento. La vicenda dei due si snoda come un documentario naturalistico di un tempo, quando la camera inseguiva cervi sui monti oppure orsi dopo il letargo.
Film piaciuto tantissimo ma siamo alle solite, anno 1973 gente che ammazza i genitori, da’ fuoco alla casa e si fa largo impallinando borghesi che lavorano, era il sogno post-hippy forte nel cervellino nei fancazzisti sempre piu’ in odore di sconfitta. Oltretutto la traduzione italiana del titolo originale "Badlands", ci spinge dietro.
A conferma della retorica pelosa, il finale con poliziotti commossi e auguranti buona fortuna ad uno che ha sterminato a sangue freddo una mezza dozzina di persone, incluso un padre preoccupato per la figlia innamorata di uno psicopatico. Bella roba gente.
Buon esordio s’intende per un regista trentenne che comunque dimostra di sapere bene cosa vuole, per quanto ripeto, non mi abbia propriamente impressionato.
Brava la Spacek, anche se a quel tempo aveva quasi dieci anni in piu’ del personaggio che andava ad interpretare e bravo Sheen che con discreto anticipo si mostra deciso e determinato come il Willard di "Apocalypse Now" e che anzi ne anticipa l’immagine mentre saltella nella foresta in attesa della jungla.
Per cio’ che mi concerne, piena sufficienza ma non una virgola di piu’.

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Island: New art from Ireland – John Lennon artista – Museo della figurina (Modena Settembre 2013)

IslandScrivo di questa piccola ma bella esposizione con molto dispiacere.
Si perche’ oramai e’ conclusa e purtroppo cio’ che restera’ e’ il mio tardivo commento quando avrebbe potuto fungere da traino e invito per altri visitatori.
Mi riduco a visitarla praticamente il penultimo giorno d’esposizione e soltanto per un’errata valutazione.
Leggendo la scheda informativa, me feci l’idea che in fondo si trattasse della raccolta piu’ o meno sparsa, per quanto interessante, di artisti accumunati dal solo essere irlandesi. Posso concedermi l’attenuante che in apparenza sulla carta, poco del lavoro di ognuno si lega a quello degli altri; sculture, dipinti, corti cinematografici un po’ troppo eterogeni per vederci un filo conduttore eppure, abbandonato il web per la vita reale, la forza della mostra consisteva proprio nel tema comune agli artisti e alle loro opere.
Ogni artista a modo suo, pone l’Irlanda come punto centrale della ricerca, eppure ne trasforma l’identita’ fuggendo da essa, come Dorothy Cross che attraverso la natura lisergica che cambia la visione, scambia tradizione e ambiente oppure Mark Garry che mostra come il reale possa apparire artificiale o ancora Martin Healy che dell’estetica industriale fa una nuova immagine naturale e forse Damien Flood con le sue isole immaginate e poco emerse, spinge ad andare oltre l’iconografia o la forma da volantino turistico.
Pochi artisti ma dalle idee molto chiare, conto in una replica magari espansa.

John LennonNon ho i Beatles come riferimento supremo. Conosco molto, mi piace molto, ne riconosco i meriti ma v’e’ una notevole sopravvalutazione quantomeno riferendoci ai singoli componenti del gruppo, non tanto sulla macchina da guerra costruita attorno a loro.
Del duo Lennon / McCartney poi, da sempre tifo quest’ultimo svantaggiato nei confronti dell’altro per il solo fatto di non essere stato ammazzato anzitempo. Lennon godette e ancora oggi la sua figura s’esalta in un mare di retorica, cavallo infilato a forza nel giusto circuito e devo dire che fosse stato solo per lui non avrei visitato la mostra.
Al contrario in questi anni la figura di Yoko Ono ha iniziato ad intrigarmi e approfondendo fatti e biografie, mi convinco sempre di piu’ di come seppe manovrare il nostro e di quanto il suo successo sia in effetti dovuto alla sua manina neppure troppo occulta. Lennon artista, quindi e diamolo per buono con le litografie della "Bag One" e alcuni cimeli legati alla sua partecipazione al film "Come ho vinto la guerra", film modestissimo non fosse per la curiosita’ destata dal suo celebre figurante.
Molto, molto piu’ interessanti i video prodotti con la moglie anche se e siamo a prova di smentita, e’ tutta farina del sacco di lei, laddove il passato Fluxus e l’esperienza warhoiliana, ne avevano gia’ tracciato i solchi principali.
Niente di nuovo a quel tempo e tantomeno oggi ma se piace il genere, meritano una guardata anche perche’ in questo caso, c’e’ ancora tempo

Museo della Figurina - AmoreUn ultimo accenno al "Museo della Figurina". La mostra e’ permanente e davvero piacevole da visitare in un viaggio che attraversa l’intero secolo scorso fino ai commoventi anni della nostra infanzia ma in occasione del Festival della Filosofia a Modena, si tinge di rosso come l’amore ed espone una corposa serie di figurine dedicate all’argomento. Non ci si aspetti pero’ melense raffigurazioni, tutt’altro. L’idea di amore, innamoramento, matrimonio e convivenza sono cambiate decisamente nel corso dei decenni e non era difficile veder rappresentate cio’ che noi oggi chiamiamo soprusi o violenze domestiche, tradimenti e umiliazioni, il tutto in forma di barzelletta o boutade. Vi sono anche grandi sentimenti da romanza ma e’ divertente constatare come anche solo i nostri nonni vivessero un quotidiano profondamente diverso dal nostro e non solo per i beni che ci circondano ma soprattutto nel modo d’intendere la vita, Merita una visita.

Island: New art from Ireland
All you need is love: John Lennon artista, attore, performer
Museo della figurina

Gli scultori di nuvole – J.G. Ballard

Gli scultori di nuvoleSo di ripetermi ma il Ballard che ho conosciuto dal principio, era il Ballard della fantascienza, comunque anarchico e allergico al sistema, il Ballard delle catastrofi sociali ed ambientali come se uomo e natura fatti della stessa pasta, procedessero di pari passo verso la distruzione, gemelli eterozigoti di madre stupida e crudele.
Ritorno a questo Ballard con l’ennesimo vecchio Urania recuperato e gia’ riprenderlo con la serie che me lo fece conoscere, e’ un piacere in piu’.
La gestione della collana del duo Fruttero & Lucentini ebbe tanti meriti, tra i quali l’allargare gli orizzonti del genere, includendo spesso romanzi e racconti non propriamente legati alla fantascienza, come in questo caso.
Nel senso piu’ ampio infatti, la fantascienza si puo’ considerare una branca del fantastico ed e’ in questa accezione che non di rado si sono letti racconti horror e fantastici appunto, come e’ il caso dell’antologia in questione.
Nessun alieno quindi, ne’ astronavi e neppure galassie lontane lontane.
I racconti sono minuscoli, asciutti, intimisti, raccolti e cupi. Il mistero s’annida nel cuore dei tanti protagonisti, azioni che non hanno bisogno di spiegazioni in un microcosmo nel quale causa ed effetto coincidono e collassano.
Non esiste una soluzione, ogni conseguenza pare inevitabile, predestinata ed in quanto tale mai terribile, nella natura che piu’ che mai appare cattiva.
E’ il Ballard dei primi anni ’60 che precede i romanzi di successo, riconoscibile nelle esperienze di pilota d’aeroplano, nel disagio fisico che esplodera’ anni dopo in "Crash", nel disagio interiore del quale divenne voce e maestro, viaggiatore da dentro a fuori e ancora dentro, cerchio senza soluzione di continuita’ ed e’ capovolgimento dello spazio cosi’ come e’ capovolgimento del tempo. Scrittore dalle grandi promesse poi mantenute, non tradisce inesperienza, semmai resta piu’ contratto e rigido di come impareremo poi a conoscerlo.
Bella lettura per serate d’autunno, come quando qualcosa muore e la rinascita sembra troppo lontana.

Factory girl – George Hickenlooper

Factory girlIn questi anni ho rivisto progressivamente la mia posizione in merito a Andy Warhol e detta tutta, mi ci sto ancora applicando.
Mi serviva distinguere il valore intrinseco del suo lavoro, dal giudizio entusiastico di chi parla per sentito dire o meglio di chi ha da mantenere connivenze e coincidenze. Ad ogni buon conto la ricerca continua e "Factory girl" e’ un tassello da aggiungere al quadro complessivo.
Il protagonista non e’ Warhol seppur egli sia l’ovvia controparte della vicenda.
Biopic dedicato a Edie Sedgwick. ricchissima ereditiera che trasferitasi a New York, entro’ a far parte della Factory e di tutto quanto il suo rutilante mondo. Ragazza disturbata, ovviamente le ragioni del suo ricovero in casa di cura non concordano, certo non le fu difficile cadere a piu’ pari nella droga che in breve la distrusse, non senza essersi resa protagonista delle notti e dell’arte newyorkese nella seconda meta’ degli anni ’60.
Film questo che ebbe molti problemi di distribuzione e legali, molti paletti piantati dai protagonisti dell’epoca.
Bob Dylan l’eroe buono, caro che non ci sta a passare per cio’ che era, un pezzo di plastica come tutti gli altri e solo coprendolo col romanzato e presunto, gli si salva la faccia..
Strano a dirsi ma chi ne esce meglio e’ proprio Warhol, interpretato da un superbo Guy Pearce a cui andrebbero una volta per tutte tributati i giusti onori mentre la brava Sienna Miller da’  corpo – e che corpo – a Edie, confermando in fondo che, a prescindere dalla vera causa dei suoi problemi, non poteva sopravvivere a se’ stessa.
Regia veloce ed essenziale, Hickenlooper praticamente non si fa notare e non e’ per forza un male per una pellicola che in fondo ha la pretesa di introdurre non di spiegare. E’ mancato il coraggio di fare nomi e cognomi, mostrare i fatti nudi e crudi e il prezzo pagato e’ l’anonimato di un film che gia’ sta sparendo dalla memoria.
Vale comunque la pena vederlo.

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Resident Evil: Damnation – Kamiya Makoto

Resident Evil - DamnationL’ex Unione Sovietica e’ una  fonte potenziale di intrighi e misteri ancora oggi tutta da sfruttare. I realizzatori di "Resident Evil: Damnation" lo sanno bene ed e’ per questo che hanno ambientato in una minuscola nazione sorta dalle ceneri di quello che fu l’ex impero del male, il campo di battaglia del nuovo episodio cinematografico della saga.
Accade che le forze governative e quelle indipendentiste, facciano entrambe uso delle tecnologie biorganiche create a suo tempo dalla Umbrella Corporation ed evolutosi in nuove e micidiali minacce. In mezzo a tutto cio’ l’intelligence americana col loro uomo migliore, Leon S. Kennedy che resta sul territorio per ripulire il mondo dall’infezione che proprio non si riesce a debellare.
La battaglia sara’ dura e non senza sorprese.
Come il suo predecessore "Residen Evil: Degeneration" del quale questo episodio sempre in CGI, e’ seguito indiretto, il film continua con la continuity del gioco e non del live action, portando avanti quel determinato filone di storie e i loro protagonisti.
Stesso regista, qualche anno in piu’ da quel primo episodio e in generale un prodotto piuttosto diverso rispetto quanto gia’ visto. Se in certi momenti pare d’assistere addirittura ad una involuzione per cio’ che riguarda l’animazione con qualche rigidita’ di troppo e uno strano incedere dei personaggi mentre camminano, mi ha letteralmente entusiasmato la regia, avvincente e spettacolare con l’ultima parte dominata dalle scene d’azione coreografate magnificamente, sfruttando pienamente le potezialita’ della computer grafica.
Una sorpresa dietro l’altra, un continuo di invenzioni e rocambolesche soluzioni che inchiodano allo schermo sino alla sigla di chiusura e ancora oltre.
Bello, bello bello, goduto sino in fondo e  questo punto in attesa di un nuovo capitolo.

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